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Il muro di San Damiano.
Una storia di San Francesco d'Assisi
Romanzo storico e fantastico
di P. Ettore Zini, frate minore cappuccino
2004
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Capitolo terzo – Un viaggio commerciale Capitolo quarto – Il cavaliere Capitolo quinto – Il prete di san Damiano Capitolo sesto – La solitudine nella creazione Capitolo settimo – La fraternità nella Chiesa Capitolo ottavo – L'ordine francescano Capitolo nono – Il Vangelo della pace
A p p e n d i c e Le strutture dell’interpretazione 4 L’influenza della spiritualità 8 L’individuazione di un percorso
L'artista è colui che fissa e che rende accessibile ai più umani fra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo
Maurice Merleau Pontyin Senso e non senso
Il Signore ti dia pace. San Francesco
La vita di san Francesco d'Assisi ha ispirato centinaia di autori a scrivere su di lui. Anche questo lavoro è un riferimento alla sua vita e alla sua esperienza di fede. Attraverso il romanzo storico, assunto come genere letterario, ho cercato di fare emergere diversi aspetti della vita del santo e il lettore dirà se ci sono riuscito. Nel racconto l'esperienza di fede e di vita del santo di Assisi, viene interpretata con uno stile letterario che è connotato certamente, da povere parole rispetto alla statura umana e religiosa di Francesco. In questo libro vi sono tanti riferimenti simbolici e di fantasia, all’interno di una storia. Questi aspetti vanno considerati come veicolo letterario per una interpretazione corretta dell’insieme della vita di san Francesco. L’approfondimento sul tema storico e simbolico, sulla letteratura e sulla teologia, posto nell’Appendice, è utile ad inquadrare la prospettiva a cui mi riferisco per quanto riguarda l'interpretazione. Questa interpretazione libera, ma fondata storicamente, diventa, però, una possibilità di conoscenza e di assunzione di un modello di vita cristiana. Rimando ad una consultazione più estesa i testi citati e di riferimento. Dedico in particolare questo libro a coloro che desiderano mettersi sui passi di Francesco e possono attingere, così, da questo piccolo testo, dei riferimenti utili per la ricerca della loro vocazione. Questo è il mio augurio, introduttivo, di una buona lettura.
P. Ettore
Assisi
Giovanni di Bernardone nacque ad Assisi nel 1182 da Donna Pica e Bernardone. Il padre, commerciante di tessuti, volle che Giovanni fosse chiamato anche Francesco, poiché, questo nome, era un richiamo a ciò che lui aveva scoperto, di estremamente bello, al di là delle Alpi, nei suoi viaggi per fare acquisti. Il nome indicava, di già, anche un progetto, che Bernardone aveva a riguardo di Francesco stesso per il suo futuro. In particolare per Ser Bernardone, uomo arrivato alla ricchezza dopo tanti sacrifici, il figliolo rappresentava, ormai, un simbolo della sua vita. Egli coltivava per questo figlio, tanto atteso e amato molti desideri profondi e comuni ad ogni padre sulla terra, Francesco sarebbe dovuto diventare famoso ed importante, ricco e stimato da tutti, nonché, potente, così da essere un degno successore di suo padre. La Francia, terra di conquiste e di mercati, di stoffe e di cavalieri fu un riferimento per la vita di questa famiglia. Nella città di Assisi vi erano diversi partiti, molte fazioni, gruppi e corporazioni. La società feudale era altamente strutturata, c’erano le corporazioni di arti e mestieri, quelle dei braccianti agricoli e di ogni genere di attività. La cultura della servitù della gleba, una forma di schiavitù, nonostante fosse stata gradualmente abbandonata dall'impero romano otto secoli prima continuava ad esistere nelle forme della società del libero comune medioevale. Con le invasioni barbariche dal 5° sec. dopo Cristo e con l'affermarsi dei vari prìncipi e conti barbari la schiavitù ritornava ad essere il rapporto preferito dai Signori, maiores, nei confronti di chi non lo era per censo o per denaro. I maiores erano coloro che possedevano servi della gleba, schiavi a tutti gli effetti, salariati alla mercé del loro padrone. La schiavitù di questo periodo era ancora più pesante, per certi aspetti, della schiavitù nel tardo impero romano. Lo schiavo aveva solo doveri, i diritti spettavano unicamente ai maiores perché nobili, potenti. Assisi nelle sue origini fu fondata dagli etruschi e successivamente, in seguito alla dominazione romana divenne municipio. Appena fuori dalle mura della città vi era un cippo che ricordava un evento dell’anno 545. L’iscrizione diceva: «Qui perirono valorosi soldati e contadini nell’atto di fermare l’unno Totila. Anno MXLV «. L’invasione dell’unno fu un disastro militare e sociale per gli assisani. Totila, con il suo esercito, depredò e distrusse la città con grande violenza, tanto che, quel ricordo, è ancora funesto per tutti. La città si riprese, segno dell’intraprendenza della gente e nei secoli successivi divenne ricca di arti e mestieri e infine parte del ducato di Spoleto. L’età comunale e la sua aria di libertà e novità arrivò presto anche ad Assisi e nel 1129 la città divenne, dopo guerre, ammutinamenti e ribellioni varie, un libero comune. Vivere in un libero comune significava per la popolazione dei minores la possibilità di essere parte attiva nella vita della città, di contare di più, di avere finalmente qualche diritto e non solo tanti doveri. Francesco maturò in questo clima di nuova società che il libero comune rappresentava. Erano passate tre generazioni dall'ultima servitù della gleba, da una società fondata sul diritto dei maiores e sul dovere dei minores. Un clima guerriero, altamente conflittuale e violento insieme a una nuova concezione della vita per molti poveri, erano le caratteristiche di questa società che si rinnovava. Francesco respirava quest'aria di rinnovamento e, a sua volta, imparava lo stile di vita dalla famiglia e dalla società circostante. Lo stile cortese, in particolare, diventava sempre di più il suo riferimento. Egli imparava l'arte delle corti, cantare, suonare uno strumento, poetare, parlare in rima. Tutte queste esperienze vennero poi strutturate nella giovinezza di Francesco che amava mostrarsi con un carattere dolce e astuto, intuitivo e creativo che il Padre desiderò mettere subito a frutto del suo lavoro distogliendo il giovane dagli studi per avviarlo alla bottega. Francesco stesso fu attirato dall'attività del padre che lo coinvolse sempre di più nel lavoro, nelle vendite e nelle relazioni con altri del mestiere e della corporazione. Nella sua giovinezza dimostrò di essere spregiudicato, quanto il padre, negli acquisti e nelle vendite, con guadagni alti e bassi, dovuti, anche, all'inesperienza. Francesco, però, rese evidente, con la sua intraprendenza, di essere all'altezza di un compito e di un onere impegnativo. L'amore cortese proveniente dalla cultura francese, dalla nuova lingua che si mescola col latino e con il dialetto, era cantato nelle taverne, durante le feste. La cultura della cavalleria diventava la cultura che i ragazzi e i giovani, dell'età di Francesco respiravano ogni giorno. Sfide a cavallo, tornei con mazze ferrate, tiro con l'arco e la balestra, lotta di corpo e di spada, erano i giochi che i bambini sperimentavano per le strade di Assisi. Questa situazione culturale era anche però il risultato del clima di guerra permanente che questa gente viveva nel quotidiano. La morte era molto spesso vista da vicino per vari motivi, di guerra e di denaro, di furto e di condanna. Francesco era attratto da questo mondo come l'ape e l'orso sono attirati dal miele. Egli diventava tra i suoi coetanei ed amici il giullare delle feste, colui che fa sempre bisboccia, quello che trova sempre un motivo per far festa. Per questo i suoi amici lo vollero sempre in vista nelle feste, perché capace di animare, di orientare al piacere e alla frivolezza delle canzoni, d’amore e di guerra, lo sguardo di ciascuno. La gente di Assisi, in quel periodo, era frastornata da un conflitto tra imperatore e liberi comuni, tra signori locali nostalgici della servitù della gleba per un ritorno al controllo delle anime e del territorio. Un conflitto in cui si trovava tutta l'Italia poiché l'imperatore proponeva leggi, nominava conti e signori e destituiva, a suo piacere, dalle cariche, in base alla loro fedeltà, al loro denaro e alle loro idee sul potere. I maggiori erano, ancora, le famiglie nobili dei potenti, di coloro che volevano dominare mettendosi dalla parte dell'imperatore o contro di esso facendosi scudo del papato. Erano coloro che, per stirpe o per nomina dell'imperatore, reggevano la città medioevale non ancora libera, con leggi ferree, con tasse e gabelle, con guerrieri e cavalieri chiamati a fare rispettare l'ordine e i diritti in nome dell'imperatore a cui si doveva rendere conto e denaro. La protezione della Chiesa era da sempre stata oggetto di falsità e di guerre da parte di famiglie che desideravano arricchirsi a tutti i costi e utilizzare la buona fede per accaparrarsi eserciti e denaro. Comunque, anche per questo tempo vi era la storica e illusoria, divisione di facciata, tra chi in nome della cristianità voleva dominare i poveri e avere schiavi e chi in nome dell'imperatore voleva fare altrettanto. I minores, nella società della servitù della gleba, erano i senza diritti, erano coloro che appartenevano al loro signore, fisicamente, moralmente, spiritualmente. Essi erano proprietà del loro signore, non certo era da intendersi Dio, ma il signor conte tale o il principe talaltro. Il minore viveva alla giornata fin tanto che la salute lo avesse assistito e fin che il cuore del padrone avesse avuto pietà di lui. L'essere minore coincideva, perciò, con uno stile di vita abbastanza chiaro per quel tempo, una condizione di vita, principalmente segnata dalla povertà e dall'indigenza, dalla dipendenza vitale dalle vicende del proprio padrone e signore. Ciò non toglie che vi fossero maggiori dal cuore umano, padroni intelligenti e ricchi non solo di denaro, ma anche di qualità umane profonde. Il minore nella società del tempo era, comunque schiavo, servo della gleba e della volontà del suo signore. Egli non aveva volontà propria ma dipendeva dalla volontà altrui, faceva festa della ricchezza del suo signore, gioiva delle gioie del suo padrone e soffriva per i dolori del maiore. La libertà non esisteva se non nei concetti di qualche studioso, filosofo o storico, nei preti che diffondevano il vangelo e nella Chiesa che custodiva il messaggio di libertà nello spirito, ma, non ancora, nel corpo. Perciò, della libertà, non se ne parlava in queste condizioni, poiché il suo concetto legato alla vita era ancora senza consistenza, senza riferimenti, né per il passato né per il futuro. Il minore aveva l'orizzonte di vita che il suo signore gli assegnava e la sua bravura in un campo piuttosto che in un altro comportava una certa considerazione da parte del signore. Il minore poteva anche arricchirsi, messo in certe attività poteva rendere molto al suo padrone e così fu per molti che si occupavano di coltivazioni, di commercio e di guerra. L'inizio della società fondata sul libero comune, sulle corporazioni delle arti e mestieri fu l'inizio di un mondo nuovo, il mondo della libertà. Questa esperienza non durò molto poiché Assisi, in particolare, si trovò tra due fuochi di potere: l'imperatore e i novi maiores, i ricchi mercanti che con il loro potere economico subentrarono ai nobili, vecchi maggiori, precedentemente spodestati. In questa fase politica di transizione s'inserisce l'esperienza di Francesco che appartiene alla classe sociale dei minores ma che per il censo di cui fa parte è un nuovo maiore, cioè ricco. La classe sociale, a cui Francesco apparteneva, era una via di mezzo tra i maiores e i minores, in quanto il padre, minore di estrazione sociale, ma, ricco mercante, poteva contare su uno status di tutto rispetto, dovuto alla grande quantità di denaro che maneggiava e dal commercio che era capace di promuovere. Egli stimolava la vita della città e faceva arricchire la sua bottega e, inoltre, pagava molte tasse. Questa distinzione tra le due classi divenne fondamentale per l'esperienza di Francesco. Egli volle essere, sempre, minore, perciò appartenente a questa classe sociale, anche nello status religioso. La Chiesa, in quel periodo, visse un'epoca di transizione importante, la società dei comuni e delle città-stato cambiava radicalmente anche la territorialità. Da circa un secolo si stava sviluppando la società monastica fondata sul monastero, sul lavoro dei monaci che favorivano la società civile circostante. In particolare la riforma dell'Ordine benedettino dette un impulso notevole alla formazione di una società cristiana al cui centro stava il monastero con i suoi possedimenti terrieri, le sue incombenze agricole nel territorio circostante. San Bernardo, morto nel 1153, aveva dato inizio ad una riforma efficace per cui sorgevano, soprattutto nelle pianure del nord Italia e della Francia centri monastici di rilievo. Cluny, Clairvaux, Lerin, diventarono un modello facilmente impiantabile. I Vescovi locali, in accordo con i cistercensi, desideravano che si sviluppasse questo tipo di vita e di società cristiana. Era l'epoca originaria di un tipo di società nuova, rispetto al passato, in cui assumeva rilievo la Chiesa non solo come centro di potere ma come luogo di cultura evangelica studiata, trasmessa e divulgata. Iniziava, in quel periodo, una nuova evangelizzazione della cultura e della società, soprattutto, ad opera delle università. La gente del popolo, i minori del tempo, dovevano attendere ancora qualche decennio, i tempi non erano ancora maturi e, per di più, mancavano quelle vocazioni utili a trasmettere il Vangelo ad una società di questo tipo minore. Il clima guerriero delle crociate, però, teneva lontane ancor di più, queste prospettive umanistiche ed evangeliche dal vero sentire popolare. La guerre crociate iniziate nel 1096 e protrattesi per lunghi periodi avevano portato la loro ondata di violenza e di barbarie confondendo spesso i piani della realtà delle cose, della purezza evangelica con il mercato nascosto dietro alle aspirazioni di liberazione della terra santa. Un altro fatto importante per quell'epoca fu la divisione all'interno della chiesa per cui esisteva una chiesa d'occidente facente capo a Roma e una chiesa d'oriente facente riferimento a Costantinopoli. Francesco non sapeva di tutte queste cose, ma, proprio lui con i suoi frati illetterati, fu l'iniziatore della nuova evangelizzazione nella chiesa dell'epoca. Come anche, i frati predicatori di san Domenico Guzman, che si dedicarono ad approfondire la teologia e a fondare le scuole. Di essi, san Tommaso d'Aquino divenne l'araldo e la sua teologia sviluppò la base della teologia di tutta la Chiesa. Ma lo studio dei frati predicatori e il loro coinvolgimento si dispose ad un livello culturale elevato, toccava le università, i centri di studio e di preghiera, i monasteri. Per questo motivo, essi, non arrivarono al cuore della gente minore che attendeva l'annuncio del vangelo, una parola di vita, perciò, comprensibile e vivibile. Vi furono altri esempi di annuncio ai poveri, proprio san Domenico attraverso la devozione mariana e il rosario, sviluppò, per così dire, una fase preparatoria e di disposizione, alla nuova evangelizzazione che, solo in seguito, venne operata da Francesco e dai frati minores. La cultura monastica, lo studio della sacra Scrittura, le Università che stavano per nascere e svilupparsi nel loro contesto sociale, come a Parigi e a Bologna, rappresentarono un notevole segno della cultura cristiana medioevale di quel tempo. Di questa cultura ad Assisi si percepiva solo l'eco poiché non vi erano nelle vicinanze grossi centri monastici all'infuori di un piccolo monastero benedettino sulle pendici del monte Subasio. Il cristianesimo della gente di Assisi di quell’epoca era essenzialmente centrato sulla figura del Vescovo e sui monaci in transito, in cammino verso Roma, dalla predicazione delle crociate e da uno sparuto gruppo di preti, poveri, che si occupavano delle loro chiese. I minores vedevano nella Chiesa un'alleata dei diversi signori, condottieri, cavalieri e prìncipi che si alternavano al loro governo. La predicazione del Vangelo era attiva ma il povero si vedeva preso tra due fuochi, da un lato il nuovo maggiore che aveva tutto il potere su di lui e dall'altro lato la Chiesa che non poteva fare altro che annunciare il Vangelo senza poter interagire con la vita pubblica, senza poter incidere sulla realtà quotidiana. Da questo si capisce, anche, il sorgere continuo, in questo periodo, di eresie, di sette pseudo-cristiane, come i catari in Francia e vari gruppi gnostici. La speranza cristiana veniva catalizzata dalla predicazione delle crociate come simbolo di fede. L''esperienza del crociato diventava il modello cristiano di colui che offre la vita per la liberazione della terra santa, del santo sepolcro, delle comunità cristiane nate nella prima epoca cristiana. Perciò la teologia che ispirava la predicazione dell'epoca, era rivolta ai minores, e rispecchiava questo clima religioso e sociale, anche, nell'invito a prendere parte alle crociate con entusiasmo, a vivere queste guerre come conversione e come espiazione delle proprie colpe. I minores non conoscevano tutte le motivazioni, commerciali e politiche, che reggevano questi movimenti verso l'oriente. Al minore restavano diverse possibilità, se avesse desiderato e voluto con tutto il cuore impegnarsi nella fede cristiana. Poteva partire per la crociata, dopo avere investito tutti i suoi beni e, nell'aleatoria speranza, di trarne un beneficio economico e cavalleresco. Il minore avrebbe potuto scegliere di rimanere con la sua famiglia nella servitù della gleba o nella corporazione del libero comune, per sempre, senza speranza di superare quella condizione servile. La condizione del cavaliere, le sue armi e i suoi onori, la sua forza sostenuta dalla fede, e inoltre la cultura delle chançòns des gestes divennero uno degli obiettivi fantastici e perseguibili da ogni minore. La vita del cavaliere diventò un mito, una condizione sociale carica di misticismo e di risonanze ultraterrene ed epiche. Egli non era un minore, non era un nobile maiore, era libero, e per questa sua libertà veniva preso a simbolo della redenzione di un'umanità resa schiava e senza speranza terrena di salvezza. Il cavaliere e la sua storia rappresentavano, nell'immaginario collettivo dell'epoca, il santo laico, colui che per fede aveva lasciato una vita di privazioni e di sudditanza per avviarsi al destino, ignoto, ma, carico della promessa di Dio. Fu così anche per Francesco, anche lui vide nello status di cavaliere, un mito raggiungibile, e si dispose con tutto se stesso per diventarlo.
Il soldato
Presto i sogni di Francesco sulla cavalleria, sulle chançòns des gestes tanto cantate con i suoi amici diventarono realtà. Intorno al 1196 iniziò un conflitto tra minori e i nuovi maggiori, la classe dominante di allora. Una vera e propria guerra provocò l’espulsione dei nuovi nobili maggiori da Assisi stessa e diede l’avvio ad una rivolta che terminò nel sangue. Francesco fu arruolato nella compagnia di Assisi, anche lui facendo parte della cittadinanza atta alla guerra fu chiamato a combattere. Lui era appartenente alla classe dei minori d‘estrazione sociale ma anche a quella dei nuovi maggiori costretti a fuggire. Bernardone restò a metà, da buon mercante, non si schierò a favore di una parte o dell’altra, e così, chi ne fece le spese, fu proprio il figlio chiamato alle armi e al combattimento di corpo e di orgoglio. Il padre si guardò bene da togliere il proprio figliolo da quell'impegno poiché ciò avrebbe comportato un'espulsione dalla città, la confisca dei beni e la perdita di tutta la sua ricchezza. Francesco venne addestrato per periodi brevi, poiché il padre lo reclamava spesso per il lavoro, ma quando la battaglia decisiva si avvicinò fu inviato senza troppi indugi a combattere. Dopo la vittoria degli assisani i nuovi nobili , insieme, anche, ai vecchi maiores, si rifugiarono a Perugia e qui furono accolti dai maggiori del posto. Da quel momento essi si misero all'opera per preparare la loro tragica e cruenta rivincita. A Collestrada, nel 1202, i soldati della parte di Assisi combatterono duramente contro i perugini. Questi ultimi furono molto più agguerriti e dotati di un esercito ben equipaggiato e ben strutturato militarmente. L'esito della battaglia fu a favore dei perugini, che sconfissero gli assisani, e fecero strage e prigionieri. Francesco fu tra questi, venne catturato, e per circa un anno sopravvisse nelle carceri dei perugini. Il suo carattere giullaresco e gioviale, la sua capacità di industriarsi, di fare mercato, qui fu letteralmente annientata. La legge del carcere era spietata, si lottava per sopravvivere, ogni giorno, non c'era tempo per sognare, nemmeno il passato aveva un tempo per essere ricordato. Francesco nel carcere di Perugia visse e respirò quotidianamente il clima della violenza, della disperazione e della paura. Tutti i prigionieri stavano rinchiusi in celle umide e, per ognuno di essi, era previsto un interrogatorio, in seguito avrebbero proceduto al processo e ad una condanna. L'esito del processo dipendeva da tanti fattori come il grado di combattimento del prigioniero e la sua partecipazione ad azioni specifiche di guerra. Nel caso il prigioniero fosse stato riconosciuto colpevole di omicidio la pena sarebbe stata, di conseguenza, una condanna a morte. Inoltre era importante anche il censo del prigioniero, cioè la sua origine da famiglia ricca o povera, da cui sarebbe, poi, dipesa una considerazione vitale da parte del giudice: la possibilità del riscatto, della vita, in cambio di una somma di denaro. Francesco fu, così, rinchiuso, insieme a circa duecento altri giovani, suoi compatrioti. Si ritrovò nel carcere, prima del processo, in una cella con altri diciotto compagni, nessuno di loro aveva molta voglia di parlare o far commenti, la luce di quel luogo era fievole, in quanto vi erano solo due feritoie larghe come il palmo di una mano. Pensando al suo processo imminente egli osservava le pietre umide della sua cella scura e riconosceva in ciascuna di esse il lavoro di scalpello che era stato fatto, le vene della pietra, il colore nascosto. L'interesse degli altri suoi compagni era vario, c'era chi giocava con dei sassolini, chi cantava e chi, invece, si disperava. Arrivò il giorno del processo del suo gruppo. Francesco fu scortato dal giudice e questi iniziò ad interrogarlo. Paolo Tricosteno Briccodario, giudice militare di gran carriera, si rese, presto, conto di chi avesse di fronte, non tanto un guerriero quanto un giovane dai tratti gentili e soprattutto appartenente ad una ricca famiglia. Perciò mirando al guadagno che si intravedeva nella vicenda di quel prigioniero, il giudice, condannò Francesco a tre anni di reclusione con la possibilità del riscatto da parte della sua famiglia, non prima di un anno. Il giudice, che era di famiglia nobile e, perciò, ben disposto a comminare pene e sanzioni ai comunali, tenne a sottolineare che la città di Perugia stessa, nei suoi rappresentanti, avrebbe informato presto la sua famiglia. Il giudice fu favorevole, così, ad una futura risoluzione monetaria della vicenda del giovane soldato Francesco, nonché, figlio del mercante Bernardone. Il caso, così risolto, del soldato più ricco di Assisi aggiunse fama e sapienza a Paolo Tricosteno Briccodario. La famiglia del giudice fu, ancor di più, ritenuta potente e onorevole per le casse perugine e per la nobiltà del luogo. A dir la verità il giudice Paolo era, sì, nobile, ma a metà, in quanto un suo discendente era appunto della famiglia dei Tricosteni, minori a tutti gli effetti. Anch’essi erano dei minori che si erano arricchiti attraverso le attività commerciali, in particolare con le attività termali e con la cura di persone e del taglio dei capelli, da qui il nome di tricosteni. L’unione con la famiglia dei Briccodari era avvenuta da appena una generazione e la nobiltà di questa gente era ancora fresca di minorità popolana. Paolo nacque in questa famiglia nobile e minore e fu avviato agli studi di legge a tutela del patrimonio familiare come era d’uso a quel tempo. Divenne presto giudice della città di Perugia tramite un lauto versamento di denaro nelle casse comunali e nobiliari. Aveva dimostrato di essere un giudice equo, anche se a volte era più interessato alla sua cassa che alla giustizia vera e propria. Nei riguardi di Francesco pose molta attenzione in quanto aveva intravisto, da subito, nei risvolti di quel caso, un guadagno sicuro per le sue casse e per quelle della città di Perugia. Sempre questo giudice, avendo egli saputo dell'abilità di Francesco con le stoffe, decise di impegnare il figlio di Bernardone nella tessitura della prigione. Proprio all’interno della prigione vi era la manifattura per l'abito dei prigionieri, essa consisteva in due stanzoni, uno per il lavaggio e uno per la cucitura. Le tele venivano fatte asciugare al sole. L’abito che i prigionieri dovevano preparare era composto di in una tela di sacco uniforme per tutti, bollita per due volte, al fine di evitare l'insorgere di malattie come la scabbia, o l'infestazione dai pidocchi. I compagni di Francesco furono contenti di saperlo a bollire tele e a fare sacchi. Alcuni di questi giovani valorosi furono condannati e uccisi per vari motivi militari e di denaro. Vista l'impossibilità di un qualsiasi guadagno, per alcuni dei più poveri che non si erano macchiati di onta di sangue, il giudice decretava velocemente due tipi di pene: gleba a vita presso la città di Perugia, nei casi migliori, lavoro forzato, presso il carcere, per i più sfortunati. Per chi invece aveva partecipato ad azioni violente, il giudice stabiliva una pena corporale superiore all'atto commesso fino anche all'uccisione del prigioniero. Dopo il processo, Francesco, iniziò la vita del carcere come prigioniero condannato, e con la triste prospettiva di uscire, da li a tre anni, se non l'avessero tirato fuori prima. Lì comprese il valore della vita, in riferimento al fatto che avrebbe anche potuto morire di malattia carceraria. Le sue giornate trascorrevano, così, nel bollire tele e fare sacchi, nell'asciugare e nel cucire. Nel lavoro era capace, intraprendente e presto divenne, non senza invidia carceraria, benvoluto e rispettato. Nella sua carcerazione Francesco ebbe modo di riflettere sulle divisioni tra maggiori e minori, tra ricchi e poveri, tra buoni e cattivi, tra violenti e pacifici. Qui maturò la sua decisione di diventare un vero e proprio cavaliere, di armi e di battaglie, per la giustizia e per la verità. Nonostante il regime durissimo del carcere, Francesco, riuscì a superare questa prova; dopo circa un anno venne riconsegnato al padre dietro cauzione di denaro. Per molti giovani di Assisi, carcerati a causa di quella guerra, l'esito fu una morte lenta di abbandono e malattie, chi non aveva nessuno che pagasse per lui fu abbandonato nella prigione. Questa esperienza fece riflettere molto Francesco. La violenza e la ferocia delle battaglie, l'uccisione e la morte, infine, anche, lo scorrere del sangue e le grida dei torturati, furono i simboli principali di un dramma che provocò in lui una sorta di depressione, di nostalgia di qualcos'altro. Sentiva una lacuna, una mancanza, forse, di una dolcezza della vita, di una bellezza, tanto cantata, ma, irraggiungibile. A casa, nessuno riconobbe più Francesco come prima, era cambiato, taciturno e magro, schivo. L'aver visto la morte in faccia, durante la battaglia e nelle vicende successive del carcere, lo aveva cambiato. Nella prigionia aveva conosciuto tanti minori che prima non si sarebbe mai sognato di accostare. Tra questi vi erano molti poveri, figli di persone e famiglie minori di Assisi che avevano creduto all'ideale della libertà e che si trovavano in carcere, senza futuro, senza famiglia. Loro erano ancora nel suo cuore e nella sua mente, e forse, vi era anche il desiderio e una promessa di poterli, un giorno, liberare da quella condizione. Il padre cercava di rincuorarlo dicendogli: «Presto tornerai in forma, Francesco, vedrai! Ricomincerai a fare bisboccia, a fare tardi. Dai! coraggio! Non ti rimprovererò più per questi tuoi atteggiamenti». Ma, Francesco, pareva assente a questi discorsi, le stoffe e il mercato non gli interessavano più come prima e il padre vedendolo al lavoro senza entusiasmo, senza quel sorriso vivace, a cui era abituato, s’indignava e si preoccupava. Francesco dopo un certo tempo, pensò che, con molta probabilità, una soluzione si sarebbe potuta trovare. Egli sarebbe potuto diventare effettivamente cavaliere, in seguito andare, anche lui, alla crociata e diventare, lui stesso, finalmente libero e liberare tanti altri come lui, poveri e amici. L'ideale di Francesco era elevato, come del resto per ogni giovane del suo tempo. Ma per lui c'era una possibilità in più, era ricco e poteva armarsi come di dovere, con un cavallo, con la costosissima armatura e infine partire. Queste idee erano vive nel cuore di Francesco, appena tornato dalla prigionia di Perugia, ma la sua salute lo faceva riflettere ulteriormente. Cercò di parlarne con la madre, alla quale confidava spesso i suoi sentimenti ed ella fu contenta di questo suo figliolo così idealista e così debole. Francesco nei mesi successivi ebbe occasione di incontrare diverse persone nuove, comunali e minori, che prima della guerra non avrebbe mai considerato e che allora divennero significative.
Capitolo terzo
commerciale
Bernardone cercò in ogni modo di procurargli soddisfazioni, gli regalò un cavallo francese, pezzato, vivacissimo, veloce e giovane come il figlio stesso poiché diceva: «Così il mio figliolo prenderà e imparerà una nuova vitalità dall‘animale stesso». Inoltre lo convinse ad accompagnarlo in un viaggio commerciale nelle terre del Nord, per l'acquisto di nuove mercanzie. Decise di recarsi con lui in Francia, ma, la madre Pica si oppose a questo viaggio lungo, possibile causa di ennesime malattie per il figliolo, e fu costretto a un itinerario mercantile più breve. Scelse di recarsi a Venezia, in fondo era un luogo ancor più importante della Francia poiché lì si trovavano i maggiori mercati del tempo per ogni genere di commercio. Inoltre vi era già stato e conosceva un mercante che gli avrebbe permesso di fare scambi vantaggiosi. Bernardone organizzò la spedizione commerciale in grande stile, si fece dare dal comune diversi soldati di scorta, prima di partire volle che il vescovo benedicesse la sua spedizione umana e commerciale. In particolare volle far scendere la Grazia sul suo corredo di merce di scambio, sulle sue pelli di cuoio e sulle sue tinte di colore poiché, diceva: «L'uomo da solo non può farcela, ha bisogno della benedizione di Dio». Con grande meticolosità, Bernardone, dispose l'itinerario insieme alle guardie comunali e risolse di partire di lì a poco. Nel suo viaggio con il padre, Francesco, fu colpito da tante impressioni, ormai era un uomo già provato dalla vita, nonostante la giovane età, la guerra aveva lasciato il segno. Vedendo le città, che attraversavano nel viaggio, egli fu colpito dall'estrema povertà della gente. Come ad Assisi la società si ripeteva con le sue leggi, usi e costumi. Lui, ricco mercante, minore di estrazione e maggiore per censo sociale, poteva guardare i poveri dall'alto, distanziandosi da loro e nello stesso tempo avvicinandosi a loro come potente. Arrivati nel nord dell'Italia presero dimora vicino a Venezia, in un villaggio sulla terra ferma. Il padre voleva informarsi della situazione mercantile dal di fuori prima di entrare in Venezia e contrattare le sue merci con le nuove che avrebbe inteso acquistare. Trascorsi due giorni il gruppo formato da Bernardone, Francesco, otto guardie comunali armate di tutto punto entrò a Venezia, città capitale della Serenissima Repubblica. All'ingresso della città una delle guardie di Bernardone presentò ad un soldato i documenti del gruppo, dopo poco tempo si presentò il capo-posto. Questo soldato indicò a Bernardone la richiesta del pagamento del denaro per ogni persona in transito nella città e per la tassa sulle merci e gli animali. Dopo il pagamento il capo-posto trasmise i documenti all'ufficiale della guardia che iniziò la stesura del documento accompagnatorio per tutto il gruppo. I veneti erano soliti fare le cose per bene e ciò non dispiaceva a Bernardone che si sentiva sicuro di quel modo di fare. Anche Francesco guardava questo andirivieni di soldati e guardie con interesse, notava in loro una serietà e nello stesso tempo una tranquillità che prima non aveva ancora trovato nei soldati. Arrivarono all'imbarco e tutti salirono con i loro due carri e cavalli su una chiatta che li avrebbe trasportati sulla città. La vista di Venezia fu per Francesco una meraviglia difficilmente descrivibile, Bernardone era tutto compiaciuto di questo viaggio e faceva trasparire la sua contentezza. Il padre era fiero di sé, fiero del figlio, contento del raggiungimento di Venezia e di essere un assisano moderno capace di entrare in relazione con una nuova società. Si sentiva pieno di questi sentimenti di gloria e le onde che s'infrangevano con spruzzi e rumore non gli davano nessun fastidio. Francesco faceva domande sui palazzi che intravedeva e si chiedeva come potessero reggersi sull'acqua. Il padre gli disse che Venezia era nata dall'acqua per volere di Dio stesso e come punto di riferimento di tutti coloro che, come lui, nella vita, erano mercanti. Certamente il padre sapeva che questa teoria sull'origine di Venezia fosse una sua personale leggenda ma gli importava di mantenere quello stato di sana vanagloria che un ricco può manifestare nella sua vita, quando, libero dal dover maneggiare soldi può fare delle notevoli e significative considerazioni sull'esistenza e sullo scopo della vita stessa. «Da qui partono e ritornano navi cariche di ogni bene», fece notare con solennità Bernardone al suo figliolo. Inoltre, il padre mercante, un po’ credeva alla leggenda in cui si diceva che l'origine divina della città era legata ad una storia sacra un po' simile alle storie degli dei. Sull'acqua di Venezia gli dei commercianti avevano preso dimora, e lui, si sentiva un po' discendente di questa stirpe reale e divina. I sogni ad occhi aperti del padre erano rispettati e ascoltati dal figlio con grande interesse e con simpatia. Francesco abbracciò suo padre e lo ringraziò di essere così buono e sognatore e Bernardone fu molto contento del gesto, tanto che si mise a ridere e invitò Francesco a continuare con quella giovialità poiché gli ricordava la sua infanzia e i suoi giochi di cavaliere. In realtà Venezia, come Francesco seppe più tardi, era sorta sull'acqua circa otto secoli prima. La gente che andò ad abitare sulla laguna cercava un rifugio sicuro dalle orde dei Vandali e degli Unni che, nel loro passaggio da quelle parti, razziavano e uccidevano, bruciavano e torturavano uomini, donne e bambini. Molti veneti si rifugiarono sulla laguna fino a costeggiare il mare e qui costruirono su pali di legno, con terra e calce, una città meravigliosa. Francesco non volle però rivelare al padre queste considerazioni che aveva appreso dialogando con la gente del posto, non voleva infrangere il sogno del padre di vedere in quella città la nuova terra promessa di tutti i mercanti. «A volte», pensava tra sé: «I sogni servono a vivere, essi vanno, perciò, rispettati come intimo della persona, come un segreto dell'uomo che vive e spera». L'impressione di questa città su Francesco fu notevole, i suoi sestieri, le sue case, i suoi ponti, ma soprattutto la sua gente s'incisero nel suo cuore. Le persone che vedeva lungo le viuzze sull'acqua erano gentili, ordinate e laboriose. I bambini giocavano a prendersi, sul volto della gente vedeva un sorriso naturale che rimandava immediatamente, di contrasto, al volto mesto e, spesso, tenebroso dei suoi concittadini. Francesco volle sapere quale era il rapporto tra minori e maggiori, e durante le compravendite che il padre intesseva, si metteva a chiacchierare con altri mercanti, con la gente comune che lì era amabile. Comprese che a Venezia vi erano nobili e gente comune, minori, come ad Assisi, ma, la città di Venezia, era una Repubblica, perciò, uno stato particolare in cui il doge e il suo consiglio erano eletti dalle maggiori corporazioni a cui tutti facevano riferimento. I minori non erano servi della gleba ma cives, perciò cittadini della repubblica. Ogni corporazione di arti e mestieri contava su centinaia di appartenenti, marinai, rematori, piloti, panettieri, fabbri, costruttori di navi e arredi da pesca. Il centro delle loro attività era l'arsenale, un luogo segretissimo e irraggiungibile da alcun visitatore. Lì erano custoditi i segreti della lavorazione del legno per le navi, venivano costruite enormi galee da trasporto, si trattava, perciò, del cuore commerciale e vitale della società di Venezia. Vi erano associazioni di mutua assistenza istituite dalla Repubblica del mare veneto e di san Marco, le leggi della serenissima erano giuste, rivolte a tutelare la vita di un popolo che aveva contribuito, con il suo lavoro, a rendere Venezia una delle città più potenti e ricche dell'epoca. I palazzi, la gente nobile con i suoi vestiti ricamati e orlati, la gente comune con la sua dignità e operosità posero, ancor di più, a Francesco l'interrogativo da dove derivasse quel tipo di società. Comprese che tra maggiori e minori, tra nobili e popolo non vigeva quell'aspra divisione che caratterizzava invece Assisi e si chiedeva quale fosse l'origine di questo equilibrio e di questa novità per la sua vita. Il suo animo di cercatore di risposte trovò ben presto sazietà. Qui, sentì parlare, per la prima volta di Platone, delle sue idee, del suo aver progettato uno stato a forma di repubblica in cui vi erano i governanti arconti, i guardiani e i demiurghi. Le teorie di questo filosofo avevano ispirato i veneziani nella costruzione della loro repubblica. Francesco, che aveva abbandonato presto le lettere latine, fece un po’ fatica a comprendere queste teorie ma vedeva in esse il bene che si realizzava, una società nuova e sconosciuta per lui. Bernardone, intanto, trafficava a tutto spiano, era ispirato, guardava gli altri in modo trasecolato e chiaroveggente. Egli era nel pieno del suo furore mercantile, si sentiva illuminato di fronte a tanti mercanti e a tante possibilità di guadagni, Bernardone, aveva portato con sé il cuoio lavorato dagli artigiani di Assisi, tessuti ricamati e pronti alle bardature di cavalieri e spose, principi e cortigiane e stava vendendo e comprando proprio di tutto. Questa frenesia di mercato costrinse Bernardone a comperare anche un nuovo piccolo carro poiché le mercanzie acquistate richiedevano più spazio di quelle vendute. Tessuti di ogni specie, sete preziosissime, tessuti nuovi per quell'epoca. I veneziani erano in commercio con terre lontane dove la seta era lavorata con tecniche millenarie. La lana delle montagne derivata da non si sa quale animale veniva ammassata da Bernardone insieme a oggetti, gioielli, pietre preziose, perfino oro in polvere. L'industriosità del padre non disturbava l'attività di ricerca di Francesco, egli si fermava volentieri nelle botteghe e conversava di tutto con signori, mercanti e gente d'ogni tipo. Continuando nella sua ricerca sul perché di quella incredibile forma di società intuì che molto doveva derivare dalla fede di quella gente semplice. In particolare nel colloquio con un signore del posto che affermava di essere parente di un gran nobile veneziano comprese l'importanza della fede cristiana per questa gente. Il nobile gli raccontò che nell'829 accadde il fatto che, secondo lui, avrebbe connotato la fortuna e la bellezza del popolo veneziano nei secoli dei secoli. In quel lontano anno un gruppo di veneziani in viaggio per i soliti commerci trafugò le spoglie di San Marco da Alessandria d'Egitto. I valorosi veneti, Rustico e Malmocco, divennero famosi, con questo gesto, essi erano due giovani arditi e in cerca di gloria terrena e celeste. Le reliquie del santo evangelista giunsero a Venezia accolte da un tripudio, in effetti, i veneti sentirono la benedizione di Dio in quell'evento, Dio premiava un popolo tanto provato dalla storia, da guerre, da invasioni e da violenze, con il ritrovamento più importante della cristianità di quell'epoca. Questo evento procurò ai veneziani fama in tutto il Mediterraneo e nello stesso tempo infuse nell'animo della città, già vivente con uno stile particolare di regime politico, una nuova ventata di religiosità e di fede cristiana. Questa nuova situazione permise alla popolazione di incrementare la religione e, nuovamente, impegnarsi nella vita terrena per conseguire, al meglio, la vita celeste. Le spiegazioni di questo nobile veneziano indussero Francesco a riflettere ulteriormente sulla sua fede, sulle sue convinzioni. Il nobile aggiunse che in quel periodo, i veneziani stavano combattendo, su invito di papa Innocenzo III, una crociata importante contro i maomettani, poiché questi stavano insidiando Costantinopoli. L’intervento veneziano era ritenuto fondamentale. Proprio i veneti, stavano conducendo la crociata, con a capo il doge Enrico in persona, con uomini, navi e ogni sorta di industria politica e di denaro. Francesco colse anche l'interesse commerciale dell'evento della crociata ma ritenne inferiore la portata di quest'aspetto rispetto al simbolo religioso che rappresentava. Con questi sentimenti si recò a visitare la basilica di san Marco e sulle reliquie del santo evangelista prese l'impegno solenne di partecipare anche lui alla crociata che di lì a poco si sarebbe svolta. Promise solennemente di andare anche lui a servire la crociata per liberare la città di Costantino, il primo imperatore cristiano. Stava ancora pregando quando gli si avvicinò un prete. Questi gli chiese, con reverenza, il favore di aiutarlo a spostare una cassa. Francesco, di sana lena, s’incamminò dietro al religioso e lo aiutò nel suo semplice lavoro. I due parlarono un po', Francesco gli raccontò della sua esperienza, di Assisi, e di tutto quanto si sentiva di parlare con quel sacerdote che ispirava simpatia. Quando, però, gli accennò della crociata e delle sue intenzioni, il prete si fece triste e disse: "Figliolo io per quello che sto per dirti rischio la bruciatura sulla terra, ma tu se vai alla crociata rischi l'inferno per tutta la vita presente e futura, poiché nostro Signore non ha mai chiesto a nessuno di uccidere per lui e per il vangelo". Francesco lo interrogò a lungo su tante questioni e dopo il colloquio, il prete, si congedò dicendo che all'indomani avrebbe fatto avere a Francesco un testo importante, poche parole, ma di quelle giuste, su questo argomento. I due si salutarono non senza le raccomandazioni del prete di non rivelare nulla. Francesco di ritorno alla locanda, dove il padre e il suo corredo umano e mercantile, stava a riposare, volle parlare, anche a lui, delle sue intenzioni, senza menzionare, però, l’incontro con il prete. Il padre ascoltò Francesco, con attenzione, e si diceva fortunato di avere un tale figlio, pieno di intraprendenza. Era contento della proposta della crociata perché la riteneva guarigione di mente e di corpo del figlio. Bernardone pensava tra sé: "Finalmente il mio figliolo è ristabilito in tutto e graziato dall'aria e dal mercato di Venezia. Ora lo vedo protetto dalle forze spirituali e pronto a combattere e poi lavorare nella mia cara bottega." Bernardone ricordò a Francesco e al resto del gruppo che il giorno seguente avrebbero parlato con tranquillità, poiché la sera, dopo la giornata di lavoro, portava a cattive decisioni. Egli faceva notare al suo figliolo che l'entusiasmo per la crociata andava ulteriormente valutato, per vari motivi. Quel giorno fu l'ultimo della permanenza del gruppo a Venezia e il padre, insieme a due guardie, si recò ad effettuare i pagamenti che doveva ancora adempiere, Intanto, le altre guardie restavano di scorta alla mercanzia, poiché, lì, vi era una grande ricchezza. Francesco in quel mattino fu completamente libero e si recò in quella chiesa dove, il giorno prima, aveva fatto la solenne promessa di essere crociato. Dopo averla rivisitata s’incamminò per Venezia per incontrare quel prete col quale s’era intrattenuto il giorno prima. Trovò la chiesa e il prete. I due si misero a parlare e il prete indicò a Francesco una stanza in cui entrambi dovevano recarsi. Appena furono entrati tutti e due, il prete, chiuse la porta a sprangate, con energia alzò una tavola dal pavimento e dissotterrò dei bigliettini sui quali, diceva, di avere scritto quello che serviva al suo caso. Essendo Francesco illetterato e senza esperienza nel latino, il prete gli aveva tradotto alcuni passi dei Vangeli in cui si affermava che Dio vuole che siano amati anche i nemici, che si debba perdonare settanta volte sette cioè sempre, che l'amore e la fede sono l'essenza del cristianesimo. Il prete li consegnò a Francesco dicendogli di custodire queste parole come parte del suo corpo, come vita della sua anima, poiché diceva: «Il Vangelo dà vita a chi lo osserva». Aveva aggiunto anche qualche salmo, poiché sapeva che anche questi scritti avrebbero fatto bene al suo giovane interlocutore. Francesco guardò questi piccoli biglietti di pelle grossolana sui quali le parole risaltavano bene e lui riusciva a leggere la sua lingua, il volgare, la lingua del suo popolo. Il prete ricordò a Francesco che doveva tenere questi scritti nascosti poiché era vietato tradurre la Bibbia e interpretarla liberamente, era perciò un segreto. Francesco ringraziò solennemente questo santo prete e gli chiese la sua benedizione poiché lui, alla guerra di croce, era nell'intenzione di andarci in ogni caso, non senza aver meditato quelle parole sacre dategli in dono. Lui, certo, non sapeva che quei biglietti di cuoio sarebbero diventati parte integrante della sua vera ricchezza. Ma ogni cosa e avvenimento ha il suo giusto tempo. Il gruppo dei mercanti di Assisi partì da Venezia alla volta della loro città comunale, non senza uno sguardo d'affetto a quella città lagunare, tanto bella, che stavano lasciando. Francesco grazie a questa esperienza apprezzò meglio suo padre e suo padre conobbe di più il figliolo, i due avevano visto l'uno dell'altro quei lati del carattere che emergono solo a certe condizioni della vita, come la serenità e la tranquillità. Parlando della crociata, Francesco, manifestava tanto ardore quanto quello del padre nell'attendere agli acquisti, ai suoi, futuri, enormi guadagni, che sarebbero derivati dalla compra e dalla vendita di quelle mercanzie così preziose.
Il cavaliere
Nel 1204, Francesco, decise di aggregarsi alla crociata con il suo cavallo, con la sua armatura da guerra, acquistata, in parte, a Venezia, con tanto entusiasmo e con la benedizione del padre Bernardone. Il primo passo che dovette affrontare fu quello dell'investitura, poiché nessuno, a quell'epoca, poteva proclamarsi cavaliere da se stesso. Per l'investitura erano necessari diversi accorgimenti e passaggi secondo la legge dell'epoca. Tra i più importanti vi era l'atto solenne di un nobile che accoglieva nell'ordine cavalleresco, in nome di Dio e di di tutta la nobiltà dell'impero. Successivamente a questo atto solenne un Vescovo, o anche un prete, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe poi benedetto la spedizione. Il cavaliere avrebbe combattuto per una causa, non sua, ma in riferimento ad un nobile intendimento. La famiglia, inoltre, avrebbe dovuto versare una cospicua somma di denaro. L'essere cavaliere perciò non consisteva in un semplice status di benessere ma in una condizione di partecipazione effettiva alla guerra o alle vicissitudini del nobile signore, al quale, il cavaliere, prestava giuramento di fedeltà. In quel periodo ad Assisi erano ritornate le famiglie nobili cacciate in precedenza perciò vi erano famiglie maggiori di censo nobile e famiglie maggiori di estrazione minore. Vi era, perciò, un po' di confusione al riguardo, tanto che fu istituita una giuria per le investiture. Furono scelte le famiglie, degne di investire cavalieri, tra tutte quelle che avevano partecipato alle vicende di quegli anni nel bene e nel male. Ma non solo, anche la città comunale voleva la sua parte poiché, nell'investitura, doveva essere messo anche il giuramento alla città. Francesco, essendo minore d'estrazione, nuovo maggiore per la sua ricchezza e il nuovo regime, dovette, comunque, ricorrere ad una di queste famiglie, nobili o meno, per l'investitura. Per quest'occasione Francesco fu indirizzato alla casa di Mediobrando, un nobile signore assisano che fu ben contento di ricevere le aspirazioni di questo giovane e i soldi di Bernardone, per il suo ufficio di investitore. La cerimonia dell'investitura fu semplice nella forma, però, ricca, nei suoi contenuti. Francesco giurò fedeltà alla città, grande novità per quell'epoca, e al suo nuovo domino dicendo: "Giuro di difendere con la mia vita tu e la tua famiglia, giuro di essere onesto e di servire la verità, giuro di difendere i deboli. Giuro di dispormi al servizio della libertà, in particolare, delle terre in cui Nostro Signore Gesù visse e che oggi sono chiamate terra santa". Mediobrando, dopo aver udito queste parole pose la sua spada sulla testa di Francesco e poi sulla spalla sinistra e infine sulla spalla destra. Bernardone partecipò con ardore commovente ai vari momenti di quella iniziazione. In seguito sotto l'effetto di un vino rosso, al alta gradazione, profuse l'anticipazione delle future gesta del figliolo, ormai definitivamente entrato nella vita, secondo lui. Dopo pochi giorni, Francesco, insieme a Bernardone, in più, contornato, da scudieri e compatrioti, si recò dal Vescovo per ricevere la solenne benedizione della sua spedizione crociata. A completamento del suo apparato militare e cavalleresco Francesco aveva approntato anche il suo stemma. Questa opera d'arte, fatta da Francesco con entusiasmo, recava con solennità la sua insegna di cavaliere: una Tau e una pietra. Francesco aveva riflettuto molto sulla scelta dei simboli, poiché, essi rappresentavano il motivo mistico della vita del cavaliere. Egli aveva scelto una lettera Tau, un simbolo molto disegnato, sugli stemmi e nelle bandiere crociate, per esprimere la sua intenzione di difendere la fede. Inoltre volle che sul suo stemma fosse disegnata una pietra. Questo semplice simbolo rappresentava, per Francesco, una moltitudine di significati. La pietra era segno di durezza, quella solidità necessaria ad affrontare il combattimento e di cui il segno doveva rappresentare un buon auspicio. La pietra richiamava al passato guerresco di Francesco, alle battaglie e alle pietre delle prigioni di Perugia, ad una memoria di sofferenze e drammi. Attraverso la meditazione di quelle pietre, incontrate per forza, Francesco, aveva maturato il suo ideale cavalleresco. Infine la pietra era anche richiamo al nome del padre e, Francesco, in segno di riconoscenza al genitore e al suo nome volle portarlo con sé. Bernardone fu molto contento della scelta della Tau e della pietra, tanto che essi sarebbero diventati, in seguito, lo stemma della sua nobile bottega commerciale, per sempre. Venne il giorno della partenza e al seguito di cavalier Francesco si disposero, con la dovuta riverenza, due scudieri e armigeri, Manno da Gualdo e Terzo dalla Marca. Questi due accompagnatori erano prodi scudieri di fama, e furono scelti, da Bernardone, per il loro coraggio, essi furono incaricati dal padre mercante della tutela della vita di Francesco e di quella del prezioso cavallo. L'armatura, indossata solo in parte da Francesco durante il viaggio, comprendeva: l'elmo e lo scudo acquistati a Venezia che risplendevano per le decorazioni orientali, simili all'arte spartana, una corazza di vero ferro lucidato, sulla quale, emergevano spuntoni aguzzi, una spada luccicante, e infine a corredo della belligeranza una mazza ferrata con chiodi per i combattimenti corpo a corpo. I due scudieri erano entrambi dotati di scudo e lancia con spuntone in ferro. Durante il viaggio, Francesco e i suoi accompagnatori, incontrarono un cavaliere povero. Questi impressionò Francesco per la sua dignità, nonostante le sue carenze di vestito e di faccia. Il nuovo cavaliere della Tau e della pietra, volle sapere il suo nome e questi affermò con la debita fermezza cavalleresca: "Mi chiamo Burialdo e sono un cavaliere, ormai, errante. Sono stato duramente sconfitto a duello di torneo e, ho dovuto pagare il prezzo per il riscatto della vita con tutto ciò che avevo". Francesco, impietosito dall'aspetto e dal semplice racconto di cavalier Burialdo, decise di regalargli il suo mantello pregiatissimo. Manno e Terzo da quel momento capirono che il loro cavaliere e padrone non avrebbe riscosso molto successo poiché attento agli altri invece che alla propria gloria e a quella dei suoi meritevoli accompagnatori. Si fecero subito sentire e protestarono tenacemente per quell’atteggiamento troppo servile. Essi ritenevano Francesco troppo generoso e gli dicevano con serietà: «Questo è un gesto di generosità ma facendo così ci metti in ridicolo!». Nonostante queste contraddizioni con il loro cavaliere, i due, continuarono onestamente il loro servizio. A Spoleto, Francesco, fu costretto a fermarsi, a causa di una malattia, e il suo sogno di guerra d'onore, venne, così, infranto. Egli dovette sostare in un luogo tranquillo poiché una febbre lo assalì. Pensò di avere delle allucinazioni dovute al suo esagerato desiderio di diventare altro rispetto a quel destino che il padre gli aveva indicato: un ricco mercante e un potente signore. Così Francesco dovette tornare a casa per la sua gracile salute. Un altro sogno lo aveva risvegliato sul suo cammino. Aveva visto, in questo nuovo sogno, un palazzo pieno di armi e ad un certo punto aveva udito una voce che gli chiedeva se lui avesse preferito servire il servo o il padrone di quel luogo. Con semplicità interpretò il sogno pensando al proprio padre, simboleggiato dalla voce che aveva udita nel palazzo delle armi. Francesco riteneva così, in forza anche di questo sogno, che Bernardone lo avrebbe chiamato alla bottega e ad una vita di lavoro e soddisfazioni, di viaggi e di benessere, di fama e di nobiltà, come già aveva sperimentato. I due armigeri accompagnatori, trovarono presto un altro cavaliere da custodire nella fama e nella vita. Essi si disposero con devozione al loro nuovo padrone pronti a partire per nuove spedizioni e avventure. La loro ricerca di gloria e di bottini non si era, certo, spenta per il fallimento dell'impresa di cavalleria di Francesco.
Il prete
di san Damiano
Francesco, con grande abbattimento interiore, si ritrovò, di nuovo, a casa. Egli si rese conto, però, di un cambiamento interiore, non si trattava di tristezza o malinconia, ma di un’energia di vita che viveva dentro di lui e che l’aveva spinto ad andare alla crociata con entusiasmo. Ebbene, questo sentimento, nonostante il suo ennesimo fallimento e la salute malferma, era ancora vivo nel suo cuore. Non riusciva a capire cosa fosse questa energia, un entusiasmo che non lo lasciava giorno e notte. Pensò di essere malato di quella irrequietezza insanabile, un nervosismo misterioso. In effetti l’essere partito per la crociata e poi, il dover ritornare, rappresentava per lui una situazione di fallimento umano di fronte a tutti. Ma lo spirito con cui era partito rimaneva, solo, momentaneamente, in quarantena. Dal suo ritorno da Spoleto Francesco si era messo di nuovo nella vita quotidiana, fatta di lavoro e bottega, di vendite e di guadagni, insieme al padre. Le profonde aspirazioni che custodiva nel cuore erano ben presenti nel suo cuore ed egli era deciso a lasciarle riemergere. I sogni trascorsi, la cavalleria intrapresa e velocemente dismessa erano ancora vivi nei suoi ricordi. Cercava chiarezza e verità sulla sua vita, su quanto aveva fatto e trafficato. Si recava nei pressi di una chiesa, fuori Assisi, qui abitava un prete in fama di santità, povero, un uomo veramente di Dio. Donna Pica gli parlò spesso di lui dicendogli che avrebbe trovato in quella persona le risposte che cercava e forse sarebbe guarito dalla malinconia. Francesco conobbe questo prete, sui cinquant'anni, anche lui malato, ma carico di una santa energia umana. Viveva da solo in quella chiesetta semi-diroccata, spogliata di tanti arredi dai vari ladri. La sua vita un po' da eremita, si svolgeva senza molti contatti con la gente, pregava molto, trascorrendo parte della sua giornata davanti ad una immagine sacra con profonda orazione. Francesco dapprima lo visitò, prendendo del tempo dal suo lavoro, tanto che il padre si chiedeva quale futuro si sarebbe manifestato per suo figlio, un giovane di ventidue anni, così, già toccato dalla durezza della vita. Francesco aveva saputo delle vicende di questo prete che si era recato al seguito dei crociati proprio nella sua stessa spedizione. Voleva parlare con lui degli avvenimenti di quel tempo e dell’esito della spedizione tanto desiderata ma naufragata per la malattia. Il prete di quel luogo fu contento di vederlo e di sentire le sue parole e le sue preoccupazioni, i dubbi e i sogni. Capiva che dentro di lui era avvenuto un cambiamento, e intuiva che questo giovane ricco d’Assisi era al centro di una possibile chiamata di qualcuno che abita molto in alto, ma non volle mettere il suo pensiero nella mente di Francesco. Invece lo invitò a tornare in quel luogo, a fermarsi per pregare poiché diceva, rivolto a Francesco: «Dio è contento di vederti e di stare a sentire, anche lui, i tuoi problemi, i tuoi dubbi e le tue difficoltà. «A Dio», diceva il prete, «piace ascoltare il cuore dell’uomo». Francesco cominciò così a recarsi spesso in quel luogo tanto che il prete gli diede qualche piccola incombenza, dei piccoli lavoretti come, ad esempio, pulire o sistemare qualche arredo. Egli conobbe così, questo prete che gli raccontò la sua vita e le sue peripezie. Si chiamava Bertrando Anselmo ma la gente lo chiamava prete Ulfo o il tedesco, perché originario della terra dei Franchi e perché, con coraggio, aveva accompagnato i crociati fino a Cipro e Costantinopoli. Il suo Vescovo tedesco l’aveva precettato e lui, uomo di Dio e obbediente si era disposto alla cura di quel gregge di guerra. Nel 1189 Prete Bertrando era partito dalla sua terra di Germania, piena di selve e boschi, monti e ruscelli al seguito del gruppo germanico guidato da Federico, il rosso. Quella spedizione fu un dramma umano e cristiano poiché i crociati non riuscirono a conquistare Gerusalemme e furono letteralmente disgregati. Questi soldati ben presto divennero una truppa senza capo né coda. Federico il rosso morì appena un anno dopo la gloriosa partenza e il suo esercito si ritirò. Prete Bertrando, insieme al gruppo germanico, si mise al seguito del Re Riccardo nell'isola di Cipro. Questi crociati provenienti dalla Scozia gli sembravano più attenti alla realtà, rispetto ai suoi compatrioti, e difatti essi furono capaci di stipulare dei trattati con il Sultano Saladino e porre così delle condizioni di pace. Di ritorno dalla crociata il gruppo teutonico si fermò a Costantinopoli per qualche e mese e quando tutto l’esercito fu pronto s’imbarcò per il solenne ritorno nella terra dei Franchi senza, però, prete Bertrando che partì per conto suo. Durante la permanenza a Costantinopoli i crociati, che non avevano mai combattuto fino a quel momento, decisero temerariamente di fare bottino comunque e lì depredarono ogni cosa. S'inventarono una guerra contro un nemico inesistente poiché i maomettani non erano presenti a Costantinopoli fatta eccezione per qualche mercante. I crociati decisero, così, di rifarsi sulle chiese e sulle proprietà dei cristiani del luogo e si impegnarono a fondo in ruberie e in violenze senza pietà. Prete Bertrando fu colpito dalla ferocia e dalla guerra ingiusta che quelli stavano conducendo e si dissociò con tutto se stesso. Decise di ritornare nella sua terra da solo senza accompagnare più predoni di quel genere. Gli ufficiali furono ben contenti di veder partire prete Bertrando poiché egli faceva notare continuamente l'ingiustizia di quella campagna militare condotta a Costantinopoli. Lo salutarono con i soliti sberleffi e maldicenze, non senza anche qualche tentativo di eliminarlo definitivamente. Il capo militare del suo gruppo gli volle affiancare, come scorta per il ritorno, un cavaliere e un soldato crociato. In realtà i militari avevano posto questi accompagnatori non tanto per proteggere Bertrando ma come guardiani della sua bocca, affinché non avesse a raccontare quanto aveva visto fare dai crociati nella città di Costantino. Così prete Bertrando insieme ai suoi due custodi personali, si mise in viaggio per il ritorno da quella spedizione dissacrante. Lo accompagnavano, con debita e teutonica riverenza i due crociati, Mainardo di Brema e Arioberto dell'Elba. Il primo accompagnatore era veramente un nobile d'animo e di virtù, si era rifiutato anche lui di prendere parte al saccheggio di Costantinopoli e ben volentieri aveva accettato di fare da guardia a prete Bertrando poiché lo rispettava e condivideva il suo punto di vista su quelle tristi azioni. Mentre Arioberto, destava preoccupazione poiché era scaltro e non si era estraniato dalla razzia ma vi aveva preso parte con grande violenza. Questi sembrava veramente attento a custodire il suo bottino di crociato piuttosto che a proteggere il religioso. Prete Bertrando aveva intuito che la presenza di Arioberto non avrebbe portato nulla di buono al piccolo gruppo che si disponeva al viaggio. Infatti Arioberto era stato convocato da un ufficiale che velocemente, al riguardo di quella scorta così improvvisa, gli disse: «quando vedi il momento buono maciullalo, scappa senza Mainardo e poi torna da noi, anzi se riesci falli sparire tutti e due». Dopo due giorni di viaggio le intenzioni funeste di Arioberto vennero scoperte poiché egli tentò di uccidere prete Bertrando nel sonno. Una notte egli cercò, di soppiatto, di accoltellare prete Bertrando ma Mainardo, con grande esperienza militare e di combattimento, si mise tra i due e colpì il malvagio facendolo barcollare e poi cadere come un sacco. Mainardo lasciò la vita a Arioberto su solenne intercessione di prete Bertrando che diceva: «Di morti e trucidati ne abbiamo, già, fatto esperienza piena perciò, Mainardo, ti chiedo di lasciarlo vivere poiché, egli, avrà chi lo condannerà molto più duramente di noi se non si convertirà veramente a Dio e al prossimo». Così il gruppo si rimise in viaggio, ma, Arioberto sentendosi ferito nell'orgoglio minacciava ancora vendetta nel suo cuore contro se stesso e contro gli altri. Questo crociato si era accodato alla spedizione poiché era ladro e ormai nella sua terra tutti lo conoscevano e perciò non aveva molto spazio per la sua attività. La sua intenzione era quella di trovare un'altra patria e il ritorno nella terra gli presentava preoccupazioni e incubi notturni. Aveva paura di questo ritorno, poiché, avrebbe dovuto restituire una gran quantità di beni. I tre nel cammino si conobbero meglio rispetto a quando erano parte della grande spedizione crociata. Prete Bertrando perdonò di cuore Arioberto tanto che questi si mise a piangere a dirotto dicendo che lui si sarebbe ucciso da solo per disprezzo di lì a poco. Prete Bertrando e l'onesto cavaliere cercarono con il consiglio e l'ascolto, con la preghiera e la fermezza di dissuadere Arioberto dal suo triste programma. Arioberto si chiuse in un mutismo, egli pensava e rimuginava tra sé ricordando la sua vita, ritornando, con la mente, alla sua infanzia infelice e alle sue disgrazie da adulto. Egli meditava profondamente sulla morte e dopo molte considerazioni personali decise che si sarebbe risparmiato la vita poiché in fondo non se l'era data lui ma i suoi genitori. E inoltre considerò che se lui era diventato così degradato era per colpa di altri e non certo sua. Fattosi la nuova ragione della sua vita, Arioberto, si mise volentieri alla scorta pacifica di prete Bertrando e agli ordini giusti di Mainardo. I tre percorsero molta strada insieme e diventarono quasi amici. Durante questo viaggio di ritorno, prete Bertrando, a causa di una malattia, dovette fermarsi, proprio ad Assisi, dove trovò ospitalità. L'apparenza dei tre non era un buon auspicio poiché sembravano più un gruppo di ladroni che crociati. Comunque riuscirono a trovare un luogo per fermarsi. Passarono da una chiesa e da un ospizio all’altro, i preti li tenevano per qualche giorno e così trascorsero alcuni mesi. Quando ebbero finito tutti i loro risparmi cominciarono anche i problemi dell'economia. Arioberto aveva con sé una vera ricchezza composta, per la maggior parte, di arredi sacri, che lui custodiva e di conseguenza non poteva assolutamente vendere poiché tutti avrebbero capito e intuito la provenienza e il modo del possesso cioè il furto e la rapina. Perciò il gruppo patì anche un po' la fame, l'unica speranza fu quella di rivolgersi al Vescovo di Assisi e, così, fecero i tre. Visto che prete Bertrando non progrediva nella cura lo condussero dal Vescovo per cercare una soluzione. Questi lo trattenne alcuni giorni presso di sé e gli propose di tornare nella sua terra tedesca ma lui si rifiutò dicendo: «Il vescovo mi ha spedito alla crociata come un cane al seguito di un gregge indifferente. Non ha senso per me tornare in terra tedesca poiché la Chiesa di Cristo che desidero servire non è adatta per far guerra ma per il regno di Dio che è amore e misericordia». Prete Bertrando continuò il suo discorso riassumendo le tappe della funesta campagna crociata di cui il Vescovo non sapeva nulla. Parlò del risultato importante raggiunto non militarmente ma con le parole tra il sultano d'Egitto e il re della Scozia. Poi volle brevemente sottolineare le vicende del ritorno, di Costantinopoli e di quanto era avvenuto. Il Vescovo fu impressionato dai racconti e dalla testimonianza di prete Bertrando tanto da restare indignato di fronte al racconto sul saccheggio della città di Costantino. Disse ai tre di non raccontare nulla a nessuno poiché, quelle cose, erano segreti militari, e ogni rivelazione su essi avrebbe potuto causare guerre e distruzioni. Il Vescovo di Assisi fu edificato però dalla testimonianza di prete Bertrando, in particolare non riteneva più le crociate come spedizioni effettivamente evangeliche ma anzi guerre da temere e non da promuovere. Dopo pochi giorni, fatte le sue debite considerazioni, e avere, anche, pregato per chiedere consiglio, il Vescovo decise di tenere Prete Bertrando tra il suo clero. Decise di delegarlo al piccolo oratorio dei crociati posto fuori le mura di Assisi. Lo chiamò e gli disse: «Bene, prete Bertrando, ti vedo in parte guarito, ho pensato di tenerti nel clero assisano e di darti un’abitazione come si deve presso di noi. C’è una piccola chiesa chiamata oratorio dei crociati, è posta a sud di Assisi scendendo verso la valle. È una chiesuola costruita circa un secolo fa in occasione dell’inizio della guerra crociata. Fu edificata per sostenere con la preghiera l’azione dei crociati e nei primi anni della sua vita fu ben mantenuta, molto frequentata e la gente vi si recava per pregare e per suffragare i propri figli che combattevano. Dopo il ritorno dei primi superstiti però, sentendo i racconti di guerra di quei primi crociati la gente si allontanò da quel luogo. I lutti furono tantissimi, intere famiglie scomparirono a causa di quella guerra e la gente smise di frequentare l’oratorio. Velocemente nel tempo arrivò il degrado, il materiale utilizzato per la sua costruzione divenne presto una preda facile per tutti. Difatti, se osserverai bene, tutti, in Assisi, hanno incastrato nei muri delle loro case qualche pietra di quell’oratorio. In fondo, la gente, si era ripresa quello che aveva donato con tante privazioni e ,dunque, nessuno di noi si è mai sognato di reclamare quelle pietre. Dovrai perciò lavorare sodo per potervi dimorare con dignità. Non vado oltre poiché so che tu sei un prete intraprendente e con calma ricostruirai la casa della fede in Dio e la tua casa personale che è posta lì a fianco e che ha patito le stesse sorti». Guardando poi i due compagni di prete Bertrando il Vescovo disse: «Quanto a voi, vi invito a continuare nella scorta di Prete Bertrando, anche qui, fino a quando si sarà ristabilito. Di poi dovrete cercarvi un'altra dimora poiché chierici e laici insieme non devono abitare». Prete Bertrando fu contento di quell'affidamento e della fiducia di questo Vescovo e disse: «Sono felice di far parte del tuo clero poiché vedo in te e negli altri preti di Assisi delle persone che si occupano secondo il Vangelo della gente che Dio ci ha affidato. Soprattutto colgo in te l’interesse per il regno di Dio più che per la guerra e il potere e questo lo ritengo importante per il nostro rapporto». Il gruppo crociato, composto solennemente da prete Bertrando, Mainardo e Arioberto, partì, così, per la sua nuova dimora con un sano entusiasmo teutonico. I tre non si scoraggiarono di fronte alla vista della piccola chiesa scoperchiata e dirupata che incontrarono. Scorsero a fianco di essa una piccolissima costruzione ancora coperta in cui trovò uno spazio di vita per lui molto importante. Francesco, quando conobbe questo prete, era in ricerca di se stesso, di Dio, degli altri e del mondo e trovò in prete Bertrando una persona d’esperienza, un riferimento importante per la sua vita. Egli non si stancava di ascoltare i racconti del prete crociato e fino a tardi, era entusiasmato dalle avventure, dai successi e dai fallimenti, dalle battaglie descritte e dalle desolazioni che lo avevano accompagnato. Prete Bertrando un giorno cercò di spiegare a Francesco le sue origini e in un lungo discorso disse: «Dunque, il mio nome per intero è Bertrando Anselmo, la gente mi chiama Ulfo poiché vengo dal paese dei germani e nella mia lingua, Ulfo significa lupo, perciò per loro sono prete lupo. Ma non me la prendo per questo soprannome, anzi è simpatico. La città dove sono nato fu fondata dai Goti che furono un popolo valoroso e martoriato, tradito e usato dai romani per i loro scopi politici e militari. Noi la guerra ce l’abbiamo nel sangue purtroppo». Prete Bertrando spiegò così a Francesco le sue origini e il suo arrivo ad Assisi, le vicende dei primi tempi e infine di quando gli fu affidato quel luogo così angusto. Mainardo e Arioberto erano già partiti per altre conquiste, entrambi avevano discusso a lungo sulla possibilità di allearsi e andare a combattere per qualche causa giusta per il mondo. Si allearono effettivamente come veri guerrieri, l'uno come cavaliere e l'altro come suo scudiero. Il loro distacco da Prete Bertrando fu benedetto con l'acqua battesimale e inoltre con una solenne cena con carne di anatra cotta e anche un po' di vino rosso. «Ora», disse il prete, «sto sistemando la chiesa e il lavoro l’ho preparato prima di tutto con un progetto teologico». «Che significa?», chiese Francesco un po’ sorpreso dall’affermazione così solenne. «Significa», spiegò il prete, con fervore, «che ho intenzione di dedicare la Chiesa veramente a Gesù anziché ai crociati, al vero re della pace anziché ai signori della guerra!». «Vedi, questa chiesa ora diroccata è nata male», aggiunse prete Bertrando facendosi serio, «è stata posta su un fondamento sbagliato, e di fatti è crollata in parte, non ha retto alla verità della fede. La gente dopo i primi risultati funesti delle crociate l’ha disertata e depredata e bene ha fatto!». Il prete continuò con la sua oratoria solenne dicendo: «Nel mio stare con i crociati a Costantinopoli ho capito veramente il senso della crociata, ovvero distruzione, morte e lamento. Lì ho capito cos’è la fede cristiana e che cosa non lo è per niente. Che cosa si deve fare per la fede e che cosa invece non si deve fare. Mi ricordo che ho visitato una chiesa bellissima, dedicata ai martiri Cosma e Damiano. Questi martiri, davvero, sono morti per la fede. Erano due credenti in Cristo ed hanno dato la vita per lui e proprio loro due vorrei che diventassero i santi patroni di questo luogo italico. Essi potrebbero diventare le pietre angolari della nuova chiesa che sto sistemando. Si, perché essa non sarà più un semplice oratorio dei crociati ma una vera e propria chiesa come Dio vuole». Come pensava nella profondità del suo spirito umano e cristiano teutonico, prete Bertrando, grazie alla sua fede e alla sua esperienza, risistemò, a suo modo e disposizione la chiesetta. Volle espressamente dedicarla, con solenne permesso del vescovo di Assisi, ai martiri santi Cosma e Damiano del quarto secolo dopo Cristo. Prete Bertrando era ben contento di quella chiesa in cui si trovava, lì pregava, lavorava un po’ l’orto e costruiva con le proprie mani arredi sacri piccoli e grandi. I preti del posto lo cercavano, ben volentieri, perché affabile e poco malmostoso a differenza dei teutonici passati da quel luogo, si rivolgevano, perciò, a lui per la progettazione e costruzione di arredi importanti. Egli era capace di costruire amboni, leggii, lampade e persino piccole vetrate composte da vetro e pietra in stile gotico come lui solo sapeva fare in quella zona. Tra tutta quest’arte ce n’era una in particolare a cui teneva molto ed era quella delle icone. Durante la sua permanenza a Cipro e a Costantinopoli aveva ammirato e poi studiato come si dipingevano, come si preparava il legno e come si doveva pregare per perfezionare quelle sacre immagini. Quest’arte però, non la divulgava, la teneva per sé, poiché aveva a cuore di arredare bene la sua chiesa che ancora era spoglia d’immagini e in parte ancora degradata. Francesco riuscì, solo di nascosto, a vedere prete Bertrando dipingere un’icona particolare che sarebbe diventata anche per lui un’immagine importante. Lo vedeva industriarsi intorno ad una croce di grandi dimensioni e ad un quadretto più piccolo che non riusciva a distinguere. Un giorno, prete Bertrando, volle fare partecipe Francesco anche di questa sua opera poiché, ormai, lo riteneva amico e, perciò, lo riconosceva, un po’, parente della sua vita e degno di avvicinarsi al suo mondo. Gli spiegò che aveva ricevuto in regalo da un monaco un’icona raffigurante Gesù Cristo, un’icona importante poiché ritenuta tra le più vicine all’immagine reale del Signore. Quest’icona era l’unico arredo sacro presente nella sua chiesetta, il prete aveva posto quell’immagine in alto, sopra i resti di quello che era l’altare, poiché in quella posizione nessuno l’avrebbe potuta rubare. Quando prete Bertrando si metteva a pregare accendeva un piccolo lume ad olio che sbiancava la volta e così si poteva vedere l’icona e a lui questo bastava. Al tempo in cui Francesco aveva iniziato la frequenza di quel luogo il prete Bertrando aveva già sistemato parte del tetto della chiesa ma il resto era ancora tutto da sistemare con murature di sassi e calcina. Le pietre erano molto costose, per comprarne una sola Bertrando doveva lavorare circa una settimana di bulino, pialla e scalpellino da legno. Perciò il prete teutonico fu ben contento dell’aiuto e dell’interesse sincero di Francesco. La contentezza di questo prete cresceva in modo alquanto parallelo alla preoccupazione del padre di Francesco, Bernardone, che vedeva sempre di meno il figliolo domestico nella sua bottega di vita fatta di compere e vendite, di mercati e di fiere. Francesco, ormai, era rapito verso il mondo di Dio, alla ricerca della verità delle cose più che del loro valore monetario. Oltre che trascorrere il suo tempo in S. Damiano, così fu chiamata la chiesetta in restauro, Francesco amava molto, in quel periodo, stare da solo e frequentare luoghi solitari che lo attiravano più di ogni compagnia di amici, più delle attività di mercato o di affari. Intanto, doveva anche lavorare e il padre era a volte duro e a volte comprensivo e paziente, poiché credeva utile al guadagno lasciare che il proprio figliolo potesse fare tutte le esperienze utili per diventare un buon mercante. Egli vedeva il destino del figlio già scritto in cielo e in terra, Francesco di Bernardone, signor mercante d’Assisi, benefattore della città e del popolo, delle arti e della chiesa cristiana. Nella preghiera a S. Damiano, nei boschi o sui sentieri della selva e dei monti, Francesco, aveva fatto una scoperta importante, aveva riconosciuto il suo stesso spirito, la sua anima interiore, egli parlava in sé e ascoltava. Parlava con la sua interiore profondità, scendeva ogni giorno all’interno di sé. Il colloquio costante con prete Bertrando gli fece da stimolo a continuare il suo cammino interiore e ad avere il coraggio di ascoltare Dio nella propria interiorità. Il prete lo aveva invitato a parlare con Dio come ad un amico, un padre, con sincerità nell’apertura del proprio cuore. «Finalmente», diceva il prete, «ho incontrato un giovane che non pensa solo alla guerra, ai tornei, e al denaro». Francesco si recava, nel suo tempo libero dal lavoro e dalle pratiche che esso comportava, sul monte, nei boschi, nelle grotte e qui ascoltava una risonanza, un’eco, di quella preghiera silenziosa in S. Damiano. Stava entrando nello spazio mistico di sé in comunione con la natura che lo circondava, la quale rivela attraverso le sue forme viventi e inanimate l’impronta del creatore. La grotta, il monte, la selva, per Francesco erano diventati luoghi dell’amicizia con la creazione, luoghi fraterni e familiari, nei quali amava stare in silenzio e in ascolto con la stessa disposizione d’animo con cui in S. Damiano sostava in preghiera. Stava così percorrendo un nuovo cammino della sua vita e se ne rendeva conto, aveva scoperto un luogo di preghiera, la natura e il suo linguaggio chiaro e semplice, simbolo del creatore. Aveva scoperto il proprio spazio interiore, il cuore, lo spirito e l’anima. Questi sentimenti e atteggiamenti accompagnarono Francesco in questo periodo e diventarono una costante del suo carattere. Non era un uomo di lettere ma un uomo di grande esperienza, nonostante la sua giovane età. Aveva già incontrato la sofferenza, il dolore, il fallimento e la morte, insieme alle gioie e alle soddisfazioni. In questo clima, frutto di una esperienza e di un particolare dono di Dio, Francesco, voleva comprendere il Vangelo e gli piaceva, spesso, leggere. Qui cominciò a dare importanza a quelle piccole pelli che custodiva gelosamente fin dal suo viaggio a Venezia. Su di esse vi erano delle parole importanti le parole di Dio e lui le teneva in mano volentieri le leggeva e meditava in silenzio. Prendeva appunti suoi da meditare, voleva capire chi fosse quel Dio di cui tanto si parlava nei simboli e nelle liturgie della chiesa. Proprio questi simboli e immagini divennero per lui una chiave di lettura importante della sua vita. Prete Bertrando era povero, nonostante s’industriasse in molte attività, un po’, come Bernardone, in un altro campo, e ciò, faceva riflettere Francesco di fronte all’atteggiamento di queste due persone. Il primo, rivolto agli affari con tutto se stesso, il secondo, invece, rivolto a Dio con altrettanto ardore. L’unica ricchezza di prete Bertrando era quell’icona di Cristo, tanto venerata, nella chiesetta diroccata. Egli ripeteva sempre che quell’icona raffigurava veramente il volto di Cristo poiché il monaco che l’aveva dipinta, a sua volta faceva riferimento ad una icona ancora più antica. Così si tramandava nella storia cristiana in Oriente, il santo volto di Gesù. Coloro che dipingevano l’icona, spiegava prete Bertrando a Francesco, dovevano riprodurre un’immagine di Cristo più antica e perciò già esistente, non dovevano invece, inventare nulla, di quel volto, ma solamente riprodurre con fedeltà l’originale. Perciò prete Bertrando era fiero di custodire quest’icona, sua vera ricchezza, e quando conobbe Francesco era proprio nel periodo in cui si era deciso di cimentarsi anche lui nell’arte iconografica. Egli però non voleva riprodurre solamente il volto di Cristo ma voleva bensì realizzare un vero e proprio crocifisso da porre nella chiesa da lui restaurata e dedicata ai santi martiri cristiani Cosma e Damiano. Quell’arredo sarebbe stato il più importante e, insieme, alla sistemazione dell’altare con un po’ di belle pietre, avrebbe costituito un luogo di preghiera solida ed efficace. Per fare questo dipinto era però necessaria una tela abbastanza grande poiché le icone venivano dipinte su tela ingessata sul legno e così anche prete Bertrando pensava di fare. Inoltre Bertrando, l’artista teologo, il prete teutonico e muratore, Ulfo per tutti gli assisani che lo conoscevano, pensava al crocifisso a grandezza naturale poiché diceva: «Vedendo Cristo alla sua vera grandezza l’immagine trasmetterà ancor di più la verità dell’uomo-Dio e di quell’evento tanto drammatico e glorioso quale fu la passione, la morte e la splendida resurrezione». Francesco di sua iniziativa decise di regalare a prete Bertrando una tela di misura utile al suo lavoro, la comprò direttamente dal padre che fu ben contento di contribuire alla bellezza della religione con la sua mercanzia e vedeva in questo gesto, finalmente, la conversione del proprio figliolo al mercato e alla bottega. Prete Bertrando fu, a sua volta, contento del contributo in tessuto da parte di Francesco e si mise all’opera. Nell’arco di poche settimane ingessò la tela e iniziò il disegno di tutto il crocifisso. Disegnò il corpo di Cristo e volle affiancarlo dai testimoni delle narrazioni evangeliche come Maria, Giovanni, Giacomo e tanti altri che si trovavano spettatori di quel fatto. Prete Bertrando volle porre una vera e propria novità artistica e teologica in quel crocifisso, volle far risaltare il tema della resurrezione. Francesco non capiva come si sarebbe potuto porre la resurrezione di Cristo nella croce e prete Bertrando gli spiegò che i cristiani venerano il crocifisso risorto, che è vivo, apparso a molti, a quelli che l‘hanno poi testimoniato. Diceva con enfasi: «Senza la resurrezione la croce parla solo di un morto. Questo crocifisso invece sarà una degna rappresentazione di ciò che è avvenuto a Gesù crocifisso, morto e risorto. Per indicare la resurrezione è sufficiente leggere il vangelo, ad esempio Giovanni nel passo in cui Gesù risorto appare a Tommaso con i segni della passione e gli dice: «Metti qui il tuo dito». Tommaso risponde: «Mio Dio e mio tutto». Gesù aggiunge: «Tommaso, perché mi hai veduto hai creduto? Beati coloro che crederanno senza avere visto». «Questi beati siamo noi», aggiunse prete Bertrando nel suo artistico concione, «siamo perciò i beati della fede e non della visione, poiché il Cristo è presente in mezzo a noi con dei segni dei quali il suo corpo e il suo sangue nell’Eucarestia sono il vertice mentre le immagini e la chiesa stessa ne sono lo sgabello. Pietro, è stato chiamato da Gesù, con questa parola significativa, proprio per significare la sua vocazione nella chiesa, essere sotto, servire, stare alla base della vita della chiesa, e così, dobbiamo essere anche noi. Per indicare la resurrezione è sufficiente accorgersi del contrasto tra Gesù e lo sfondo più scuro a mo’ di sepolcro dal quale Cristo esce trionfante con uno sguardo di vittoria incontro al Padre. Dico bene, accorgersi, meravigliarsi e stupirsi, perché, il crocefisso, va contemplato e non solo guardato come pittura. Chi lo guarda deve fermarsi e fare la sua fatica di riconoscimento del fatto che quello era Dio ed era risorto». Aggiungeva con fermezza teutonica: «Questo crocifisso richiede, non tanto come prezzo della sua composizione artistica, la fatica della fede e della preghiera. Per essere compreso, il linguaggio del crocefisso richiede, come dicevo, una fatica personale che nessuno può fare al posto di un altro. Perciò ciascuno di quelli che vedono e ascoltano il messaggio di questo crocifisso possono intuire che Gesù è presente in mezzo a noi. A ciascuno perciò la sua fatica di incontrare e riconoscere Gesù nella sua vita». Prete Bertrando progettò di dipingere vicino al polpaccio di Cristo anche un gallo poiché diceva: «Anche questo animale, come rappresentante di tutta la creazione, è stato testimone della morte e resurrezione di Cristo». Aggiungeva, sorridendo, anche il fatto che quel gallo cantante indicava così la sveglia che l’umanità avrebbe dovuto ricevere all’annuncio del Vangelo. Vicino ai piedi, in basso, volle raffigurare due coppie di santi, Pietro e Paolo, i due apostoli più importanti secondo lui e inoltre i santi Cosma e Damiano a cui la chiesa era dedicata per uniformare, così, la storia di quel crocifisso con la storia del luogo in cui sarebbe stato posto. Per questo lavoro, prima, di disegno, e poi, di pittura e colorazione, e ancora, attraverso molte tecniche orientali e teutoniche, prete Bertrando si disponeva con grande fervore alla sua opera artistica e teologica tanto che chiese di pregare per lui e per il suo lavoro a Francesco e al signor Vescovo. Proprio quest’ultimo era alquanto interessato alla nuova teologia proveniente dall’oriente e dalla traduzione di essa secondo lo stile germanico e italico che stava avvenendo nella sua chiesa. Prete Bertrando si mise così a digiunare, si estraniò per un certo tempo per dipingere quel crocifisso poiché aveva bisogno di entrare nella più profonda comunione con Dio e con se stesso. «Ogni artista», diceva il prete Bertrando, «tende a riprodurre inconsapevolmente il proprio volto e i propri lineamenti». I monaci che lui aveva incontrato a Costantinopoli gli avevano indicato ciò a cui un pittore deve stare attento per evitare di riprodurre i propri lineamenti nell’icona. Aggiunse: «Serve distacco dal proprio egoismo, dalla vanagloria, dall’orgoglio e dalla fama della gente che tende a metterti su un piedistallo e ad adorarti anziché adorare il vero Dio che richiede fatica e soprattutto fede». Così prete Bertrando, con questi sentimenti e atteggiamenti dell’anima e del corpo si disponeva alla sua opera teologica e artistica che racchiudeva in simbolo la sua fede. Diceva di questo lavoro, con ardore: «Questo crocifisso diventerà un codice, una catechesi per chi vorrà contemplarlo e guardarlo soprattutto col cuore». Era estate e le cicale frinivano e rumoreggiavano con entusiasmo quasi a sottolineare l’opera di prete Bertrando, prete teutonico e assisano di adozione dedicatosi con tutto se stesso alla riedificazione di una chiesa e, di conseguenza, delle coscienza e dei cuori di molti fedeli. Il crocifisso fu completato dall’emozione artistica di questo prete e divenne presto meta di molte persone, curiosi d’arte strana, ladri incalliti e anche qualche cristiano in cerca di un luogo di preghiera, pochi per quell’epoca di guerre e torture. Era comunque un’opera di tutto rispetto in particolare emergeva il Cristo risorto e crocifisso quasi danzante sul sepolcro proprio a raffigurazione della vittoria sulla morte. Le braccia, allargate e tese, aperte verso tutti, indicavano bene la misericordia di Dio e la pace di Cristo inaugurata con la sua presenza nella storia del mondo. Tutto ciò ad opera di prete Bertrando, nella chiesa dedicata ai santi martiri della fede cristiana Cosma e Damiano.
La solitudine
nella creazione
Bernardone, intanto, cominciava a preoccuparsi dello stato di salute umana e mercantile del figlio, ormai, Francesco era, chiaramente, disinteressato alla bottega e agli affari. Francesco era sempre più distante emotivamente dalle attività del padre. Per queste ragioni, Bernardone propose a Francesco di ricominciare a lavorare a buon ritmo, come avrebbe dovuto, un vero mercante. "Ormai", diceva, «il tempo della formazione umana è compiuto». Il figliolo, perciò, secondo l'opinione profonda di Bernardone, era pronto per diventare il vero successore nella bottega e nel mercato. Francesco invece si ritirava, cercava di custodire l’esperienza che stava conducendo, anzi, disse al padre che per un certo tempo sarebbe uscito dagli affari, dalla casa paterna, per recarsi a S. Damiano e anche altrove. Voleva stare con se stesso, desiderava conoscersi, per avere chiarezza e luce sulla propria vita. Il padre pensò che il figlio stesse veramente male, a questo scopo gli propose di far visita a qualche medico e anche di rivolgersi ai maghi. Bernardone non volle assillare il figliolo, già preoccupato da se stesso, e per questo motivo gli disse che l’avrebbe lasciato in pace ancora per un po’. D’altronde, Bernardone riteneva, da un lato, che quelle esperienze sarebbero servite al suo figliolo, ma dall’altro, che quel figlio stava camminando su una strada non di mercanzia e ciò lo faceva soffrire e preoccupare. Bernardone diede del denaro a Francesco per questa nuova spedizione e lo invitò a tornare, quando si fosse sentito pronto e in forze, in tutti i sensi, per la bottega e per le trattazioni del mercato. La madre, Pica, invece, era preoccupata dell’avvenire del figliolo, provato dalla guerra e dai suoi sogni infranti, un po’ umiliato da una salute cagionevole e piena d’imprevisti. Con questi riflessi familiari e sentimenti, Francesco, cominciò la tanto desiderata esperienza di solitudine e contemplazione, per diversi mesi abitò a S. Damiano e nei dintorni. La natura in cui si era immerso e la vita che riconosceva scorrere in lui e fuori di lui lo entusiasmavano ogni giorno. Egli cercava di stare a contatto con le creature, si sentiva sempre di più parte di esse. L’albero, il vento che lo muoveva, l’uccellino che vi abitava, la volpe che appariva e scompariva velocemente, l’insetto, lo scrosciare dell’acqua erano il suo interesse quotidiano. In quelle semplici forme di vita vedeva impressa in modo velato, ma riconoscibile, dallo sguardo attento e contemplativo, l’immagine del Creatore. Vedeva in quelle forme naturali un invito di Dio ad entrare in esse, a farne parte in modo armonico, anche, se non poteva ancora capire come ciò sarebbe stato possibile. Con questi sentimenti di bellezza e riconoscenza egli viveva in un periodo particolare, era nella dimenticanza di sé. Amava stare solo, in contemplazione delle creature e in questo clima interiore riconobbe anche delle figure, nuove, per lui, in particolare delle persone, i lebbrosi. Fino a quel tempo li aveva sempre evitati per vari motivi igienici e di ribrezzo personale. Egli li scrutava da lontano, nella selva. I lebbrosi erano relegati in quei luoghi nascosti e lontani dalle abitazioni poiché contagiosi e malati, sfigurati e molto poveri. Francesco riconobbe in essi delle creature particolari all’interno della creazione, le creature che rappresentavano sommamente l’uomo, la sua debolezza e la sua infermità. I lebbrosi divennero presto, non senza fatica, la luce e la strada di una nuova dignità. In questa prospettiva si dispose ad incontrarli poiché vedeva in loro un’immagine di sé stesso, creatura anch’egli, e voleva finalmente conoscersi, anche, attraverso di loro, come in uno specchio. Il suo avvicinarsi non era un interesse di carità ma interiore, poiché riconosceva in essi l’uomo sofferente che, anche in lui, gemeva e soffriva. Scopriva, sempre di più, in essi, l’uomo offeso ed emarginato dalla vita e, anche lui, si sentiva tale per i suoi fallimenti. Infine vi vedeva l’uomo nella sua estrema debolezza e nel suo orgoglio ferito. I lebbrosi, perciò, furono, per lui, una sorta di comunità educativa, poiché, essi gli insegnarono i valori dell’umiltà e della povertà, della fiducia in Dio provvidente. Egli riconobbe nella loro vita un simbolo della vita stessa di Dio, di Cristo, vero Dio e vero uomo. Vedeva nel gruppo dei lebbrosi il simbolo di tutta l’umanità posta al centro della creazione di Dio e, lì, decaduta, offesa, mutilata per il peccato e la malattia. Non associò la lebbra a delle colpe di qualcuno ma integrò i suoi sentimenti rivolgendo lo sguardo a quell'umanità nascosta nella foresta come simbolo dell’umanità bisognosa di redenzione. Egli li visitava, parlava volentieri e si intratteneva con loro, era diventato loro amico. I lebbrosi sentendo le parole di Francesco sulla creazione e su come lui li considerasse in un posto particolare e quasi privilegiato, furono contenti. Essi gli trasmisero uno stile di vita basato sulla solidarietà del bosco e della selva, sull’elemosina da cui traevano sostentamento, e sulla provvidenza di Dio, loro vera sicurezza e grande tesoro. Anche Francesco si sentiva un escluso dalla società, a causa dei suoi fallimenti cavallereschi,e anche per la sua incapacità di successo. Egli si identificava volentieri con la loro condizione e ne traeva grande pace e consolazione per la sua vita. L’esperienza di uno di essi divenne molto comprensibile per Francesco in quanto fu vera amicizia. Il lebbroso gli parlava della sua sofferenza ed emarginazione, dell’essere costretto a fare la vita della selva come un animale, e questo era il suo dramma. Ma, questo lebbroso, trasmise a Francesco anche la sua serenità nella malattia, nell’indigenza e nella povertà, poiché egli si sentiva amato da Dio, benedetto, e parte del mondo meraviglioso in cui era costretto a vivere. Era, anche, contento, della compagnia degli altri, della solidarietà con cui la vita quotidiana era vissuta tra tutti. Per Francesco questo incontro e questa frequentazione del mondo dei lebbrosi fu un riferimento importante per il suo percorso di uomo e di cristiano. Gli risuonavano, in modo nuovo, le parole del Vangelo sull’umiltà e sulla povertà poiché lì le vedeva vissute. I lebbrosi, emarginati dalla società, erano costretti a vivere in luoghi isolati, lontani dalle case, quasi in una terra di nessuno. Proprio in questi luoghi di emarginazione, Francesco, scopriva, giorno dopo giorno, il posto in cui Dio offre la sua piena visibilità, poiché, si prende cura delle sue creature più preziose: gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi, i malati. Egli aveva riconosciuto l’uomo al centro della creazione di Dio, e l’uomo, veramente malato, non era il lebbroso ma, l’uomo peccatore. Questo concetto lo comprese gradualmente nella assidua frequenza alla preghiera e alla contemplazione, all’ascolto della Parola di Dio e nel suo stare con i lebbrosi. I lebbrosi erano un’umanità felice nonostante le malattie e l’indigenza, essi erano per Francesco i veri sani, mentre i veri malati erano gli uomini ancora nei peccati, che non riconoscevano Dio come loro Signore e Padre provvidente. La fede di Francesco era in via di costruzione attraverso il riconoscimento dell’agire di Dio e della sua presenza nella creazione. Nei lebbrosi e nei poveri, Francesco vedeva e riconosceva il significato della creazione stessa, vi scorgeva l’uomo come centro e Dio come benefattore. Vi riconosceva infine all'umanità intera fatta a immagine e somiglianza di Dio. Questa esperienza non venne più dimenticata nella sua vita e divenne, inoltre, una componente essenziale della sua vocazione. Francesco si accorse anche del suo cambiamento interiore poiché la frequentazione dei lebbrosi gli aveva dischiuso una prospettiva fondamentale nella vita, quella della fede in Dio Padre provvidente e in Gesù, il figlio di Dio, che venne nel mondo per salvare l’umanità. Egli si sentiva chiamato ad una esperienza nuova ed aveva un desiderio di intraprendere un’avventura nuova, un percorso, diverso, rispetto ai precedenti. Ancora una volta gli tornavano in mente i sogni cavallereschi, ma, in modo, alquanto, trasfigurato. Riconobbe, così, una chiamata di Dio nei suoi confronti, per condurre una vita piuttosto che un’altra, attraverso un percorso in cui si sentiva di lasciare, senza sapere come, la casa paterna. Francesco in questo periodo andò in profondità di se stesso, della sua vita interiore e di questo desiderio che affiorava gradualmente. Il riconoscimento di questo desiderio e della sua portata nella sua vita condusse Francesco a interrogarsi, a chiedere luce nella preghiera, nell’ascolto della parola di Dio, nel dialogo con prete Bertrando. Egli non sapeva ancora, in quel periodo, che cosa lo attendesse in futuro ma era certo che questa esperienza lo avrebbe condotto per sempre. Francesco si sentiva rivestito della creazione proprio come i lebbrosi, si sentiva addosso questo vestito come l’abito più bello che uno potesse indossare. Questa fu la motivazione interiore che gli fece pensare di restituire tutto al padre Bernardone, tutti i suoi favori, tutto ciò che poteva restituire, per poter indossare il vestito nuovo dell’uomo nuovo che, ormai, lui sentiva di essere. La nudità di Francesco, la sua povertà esteriore non era altro che l’affermazione di una realtà molto più importante che egli indossava spiritualmente e materialmente, l’amore di Dio per le sue creature, un amore grande e infinito, concreto in Cristo. L’idea della povertà come stile di vita, il suo affermarsi, sempre di più, nella storia di Francesco nacque, proprio, in questo periodo. Nel tempo in cui, egli, si rese conto di un amore infinito, quello di Dio per l’uomo e ciò bastò a coprire, riscaldare e infiammare il suo cuore, lo spirito e ogni luogo in cui dimorava. Più veniva a conoscenza di questo amore nelle testimonianze della creazione, dei lebbrosi, dei poveri che incontrava e più voleva spogliarsi di tutto. Ben presto si rese conto di come l’amore di Dio non si potesse acquistare con denaro ma, esso, invece, richiedesse sempre la disposizione dell’animo all’accoglienza, la serenità e la fiducia nella provvidenza di Dio. Sentendo parlare di Francesco e di quanto stava vivendo nella selva con i poveri e i lebbrosi, Chiara di Favarone lo volle incontrare, poiché l’aveva conosciuto negli anni della sua giovinezza e vita pubblica. Questa giovane voleva capire cosa stesse succedendo nella vita di quell’amico e sfortunato cavaliere. L’incontro con questa giovane, per Francesco, fu carico di simbolismi tanto fu quello con i lebbrosi e con i poveri. Egli le fece parte di ciò che stava vivendo nella selva e rispondeva con pazienza alle sue domande. Non si stupiva di Chiara, anzi, fu contento della sua presenza, innocente e simpatica, le fece capire anche il suo sentimento cavalleresco, di amore cortese, nei suoi confronti. Ma, per Francesco, Chiara fu, anch’essa, simbolo di qualcos’altro nella sua vita interiore. Ella rappresentava, nell’immaginario simbolico, la Chiesa di Cristo, innocente, e posta nel mondo come continuazione della presenza di Cristo. Rappresentava anche, la stessa Madre del Signore che si era fatta disponibile con il suo si all‘incarnazione del Verbo. La giovane Chiara, la vergine Maria e la Chiesa di Cristo, per Francesco, diventarono armonia innocente da contemplare. Chiara chiese di poter tornare a trovarlo in futuro e questi la salutò e la invitò a cercare anche lei la strada, la via, che Dio le avrebbe indicato per essere felice. Nell’incontro con Chiara, Francesco lesse diverse prospettive per la sua vita. Egli si accorse che stava per avvenire un cambiamento, l’amore che provava per Chiara lo interrogava tanto quanto l’amore per Dio. In parte fu una lotta, in parte fu una presa di coscienza di Francesco di non poter sempre vivere solo, e questa situazione lo fece riflettere. Chiara, come Eva, si presentava a Francesco, piccolo Adamo della selva e in questo parallelismo simbolico vi era una prospettiva su cui Francesco cercava luce e comprensione. Cercava così una chiarezza, un’indicazione di vita che lo avrebbe condotto a percorrere una strada nuova. L’ultimo a presentarsi, in questa sequenza di persone incontrate nella selva, fu proprio Dio. Un giorno, Francesco, era in preghiera, nella chiesa di S. Damiano, davanti al crocifisso di prete Bertrando in solenne adorazione. La chiesa era sempre buia, anche di giorno, vi era un po’ di luce, sempre insufficiente, proveniente da una piccola feritoia. I sassi erano neri per il sebo, affumicato e vaporizzato, delle poche candele. C’era silenzio, si sentiva solo il vento muovere le finestre, qualche cinguettio e fruscio dall’esterno. Francesco ascoltava ciò che emergeva dal suo cuore, ricordava l’esperienza che aveva condotto fino a quel tempo e aveva una risonanza continua con il passato della sua vita. Francesco si sentì interiormente di fronte ad una scelta, la sua vocazione lo chiamava, l’amore per Chiara lo spingeva altrettanto. L’amore per Dio o l’amore per Chiara furono il suo cruccio quotidiano e lui visse in questo alternarsi di sentimenti. Sulla bilancia dell’orientamento del suo cuore entrambe raggiungevano lo stesso peso. Lui amava Chiara e desiderava che lei fosse felice, avrebbe potuto sposarla. Dio si pose dall’altro lato del suo cuore e Francesco volle capire che senso avesse questa intromissione così profonda nella sua vita affettiva. Il motivo, cominciò ad intuire Francesco, avrebbe potuto riguardare sia lui che Chiara, in che modo e con quali prospettive, lui, non lo comprendeva ancora. Chiara trasse da questa esperienza un grande frutto interiore, quello di una comunicazione particolare dell’esperienza stessa di Francesco. Anche lei si disorientò, riconobbe questa intromissione divina nella vita e dal racconto di Francesco e dall’affiorare dei sentimenti reciproci, ambedue, si rivisitarono e parlarono a lungo di questo esserci di Dio nella loro vita. Intanto Bernardone venne a conoscenza delle vicissitudini del figlio, del suo stato di solitudine ed eremitaggio per i boschi. In particolare, quando gli fu riferito dell’amore tra il suo figliolo e Chiara, ritenne di avere raggiunto una certezza sul futuro del figlio. Francesco sarebbe diventato, per Ser Bernardone, un degno figlio di un grande mercante, e al figliolo inselvatichito, si sarebbe accompagnata la nobile Chiara di Favarone. Bernardone, sognando ad occhi aperti questo santo e nobile matrimonio, vedeva la definitiva ascesa del suo casato minore allo stato dei maggiori. Inoltre vi vedeva l’opera di Dio stesso che si disponeva a benedire la sua opera di benefattore del mondo mercantile e comunale. Il padre mercante, trasportato dal furore dei suoi sentimenti pregava così: "Grazie Dio nostro Signore, ora finalmente ho capito il tuo disegno sul presente e sul futuro. Ebbene! Sia rotto ogni indugio e sia fatta la tua volontà per il regno dei cieli e per i mercati della terra. Amen" Il padre non attese oltre, si recò dopo poco tempo a S. Damiano e intavolò un lungo discorso con il proprio figliolo. I due discussero a lungo, fino a sera, tanto che il prete chiese a Bernardone se volesse fermarsi a dormire ma, questi, rifiutò l’invito, poiché, secondo lui, la chiesa di quel luogo era fin troppo abitata. Bernardone tornò a casa abbastanza fuori di sé poiché Francesco non voleva sapere ragioni. Questi era stato sincero col padre dicendogli il suo stato d’animo e le difficoltà, amare Chiara o servire Dio, dedicarsi alla vita di eremita e contemplazione oppure sposarsi. Voleva continuare a stare lì, ad aspettare che la luce della verità illuminasse la sua vita. Bernardone aveva già nel suo cuore la risposta e cercò, in tutti i modi, di renderla evidente anche per il figlio. Il padre mercante rimuginava dentro di se tutto il discorso e gli affiorava, sempre di più, la sua volontà di padre e padrone. Nella mente mercantile di Bernardone era anche affiorata l’ipotesi che il santo prete crociato di S. Damiano, non fosse stato, poi, così santo e che invece, avesse plagiato e reso menomato d’intelletto il figlio. Il giorno seguente, deciso più che mai a ristabilire, in via definitiva, l’ordine nella vita del figliolo, mandò alcune guardie nella selva di S. Damiano affinché prelevassero Francesco per salvarlo da quel luogo di rovina clericale. E Francesco si ritrovò a casa sua, carcerato in una stanza dalla quale non poteva uscire. Egli non si oppose alla rivendicazione del padre con la forza ma lasciò che gli avvenimenti avessero il loro corso, era malfermo e debole ma con una carica interiore sufficiente a sbaragliare un esercito. Durante quei giorni di prigionia e sottomissione forzata si interrogava ancor di più, sui sentimenti che aveva provato, sull’esperienza di S. Damiano e parlò a lungo con la madre che lo visitava volentieri. Si accorgeva del destino forzato, imposto dal padre, che lo voleva a tutti i costi alla bottega e questa invadenza nella sua vita gli ricordò quell’altra intromissione, quella di Dio, molto più dolce e rispettosa della sua libertà. Qui, risolutamente, si decise per ritornare alla selva e lì, finalmente avrebbe preso una decisione. Gli veniva sempre più chiaro alla mente che avrebbe dovuto prendere una strada, avrebbe dovuto scegliere, altrimenti qualcun altro avrebbe scelto per lui. Quell’accadimento funesto della cattura e del soggiorno forzato nella gattabuia del padre glielo aveva fatto comprendere bene. Grazie alla complicità della madre riuscì a fuggire dalla carcerazione paterna e ritornò alla selva di S. Damiano e, lì, si diede, ancor di più, alla vita di silenzio e contemplazione. La madre Pica dovette subire le ire di Bernardone, non ancora domo sulla volontà del figlio. Il padre mercante non si dette per vinto e ritornò a san Damiano con altre guardie per riprendersi la sua umana proprietà, ma, Francesco, si nascondeva nella selva in modo astuto. Chi subì le conseguenze della forsennata ricerca, attuata senza tregua da Bernardone e dalle guardie, fu proprio prete Bertrando di san Damiano che venne insultato a lungo, con botte e improperi, tanto da restare mezzo sbatacchiato, per un po’ di tempo, a causa di quel turbinio di soldi e di parole che era Bernardone. Nella colluttazione furibonda, il prete, aveva rispolverato, per quell’occasione, il suo animo teutonico, cavalleresco e battagliero, ma, le guardie di Bernardone furono impavide e tremende e, con furia ed entusiasmo, lo bastonarono da capo a piedi fino a romperlo come un coccio. Francesco non s’era dileguato molto lontano, aveva chiesto ospitalità ai monaci benedettini del Subasio che, volentieri, lo avevano accolto. Proprio questi monaci gli consigliarono di prendere una decisione sulla sua vita, di fronte a se stesso, prima di tutto, e poi, di fronte al padre, alla gente che lo conosceva, e infine, nei confronti di Chiara che lo attendeva e di Dio che lo chiamava. In quel piccolo monastero, povero di arredi, ma, ricco di serena umanità, Francesco prese la sua solenne decisione. Egli fece pervenire alla madre un biglietto in cui avvisava che di lì a pochi giorni si sarebbe presentato al Vescovo per chiedergli, con devozione, di essere riconosciuto nella qualità religiosa di eremita, e, così, chiedere un luogo dove abitare. Dopo pochi giorni dalla solenne decisione, Francesco, si recò all'appuntamento con il Vescovo Guido di Assisi e, l’incontro, fu scritto nella storia della chiesa e della città, poiché, si svolse in pubblico, con tanto di testimoni, nell’anno 1206. Bernardone venne a sapere dell’incontro dalla moglie, costretta a dirgli tutto, e volle partecipare come padre e proprietario del figliolo ormai, per lui, mutilato nel senno e nel cuore. Nella casa del Vescovo, precisamente tra la chiesa e il sagrato e in parte nella casa vescovile, si ritrovarono Francesco, il Vescovo Guido, Pica, Bernardone, alcuni prelati, tra i quali prete Ulfo Bertrando Anselmo ancora perturbato dalle botte, e un po’ di gente comunale. Francesco rivolse al proprio padre mercante parole solenni, dicendo che da quel giorno si sarebbe affidato a Dio completamente e il Signor Padre di Gesù da quel momento sarebbe diventato il suo nuovo padre provvidente. Per manifestare con forza questa intenzione di parole si spogliò fino alle mutande e consegnò i vestiti a Bernardone che restò di stucco. Il padre proprietario diventò bianco in volto e si raffreddò come una pietra di fiume. Francesco, dopo quelle solenni affermazioni che si possono pronunciare una sola volta nella vita, continuò a spiegare, al Vescovo, le sue intenzioni di condurre vita eremitica, in luoghi solitari, per chiedere perdono a Dio dei propri peccati. Il Vescovo, non senza apprensione per quel giovane, lo accolse nella benedizione della Chiesa. Da quel momento Francesco stette a S. Damiano in modo stabile, percorreva i sentieri attraverso le selve e si recava spesso tra i monaci del Subasio poiché lì, in quegli spazi, tra animali, piante, uomini, lebbrosi e uomini di Dio, aveva ritrovato la sua vita. Presto la sua fama iniziò a diffondersi, chi lo vedeva in giro per i boschi lo scrutava, alcuni giovani di Assisi e dei dintorni, amici e conoscenti, di Francesco e altri sconosciuti, furono toccati da questa notizia di un giovane ricco che aveva lasciato ogni bene e ricchezza del padre per darsi a Dio in un modo povero e umile. Altri invece, incrociandolo nelle selve lo pigliavano a sassate pensando che fosse lebbroso anche lui, altri ancora, lo deridevano e lo provocavano con sberleffi e ingiurie. Non era un solito accadimento di tutti i giorni che una vocazione avvenisse a quel modo. Francesco non aveva interessi per formarsi un seguito, a lui, in quel periodo, interessavano le grotte silenziose e lontane dal rumore dell’uomo, ma, ricolme della parola di Dio nella creazione. Egli contemplava misticamente la selva, sua casa naturale, il monte, il cielo, ed essi divennero sempre di più il suo vestito naturale che ben s’intonava col suo abito color cenere. Gli animali sostavano vicino a lui, quasi vi avessero riconosciuto un loro compare. Francesco era entrato nel mistero della creazione e capiva come ogni essere fosse legato all’altro da una parentela misteriosa fino ad arrivare a Dio che sosteneva tutta la sua opera. Con questi pensieri osservava la natura circostante, era solito stare vicino a S. Damiano o nella piccola chiesa a pregare e lavorare, come aveva già iniziato, con calce e pietre. Egli era entrato nella creazione e per lui, questo ingresso solenne, significava, quasi, una riscoperta del proprio Battesimo. Amava perciò l’acqua, in modo particolare, la sentiva sua parente poiché, diceva: «Essa porta molta significazione della delicatezza con cui Dio desidera stare vicino all’uomo». Si avvicinò ancor di più ai suoi amici lebbrosi, che da quel periodo, poteva incontrare con più calma e tranquillità. Essi lo accolsero veramente come un fratello. Proprio questa accoglienza fu per lui molto significativa.
La fraternità
nella Chiesa
Francesco cercava, sempre di più, la pace, e voleva viverla con se stesso, con la creazione che lo circondava, con gli altri e con Dio. Fu proprio questa serenità di Francesco, questa vita armonica nella creazione a divenire luce per il cammino e simbolo di richiamo. Alcuni compagni di Assisi accostarono Francesco in diversi modi. Già dall’inizio del suo ritirarsi qualcuno di questi compagni d'arme e di ventura era stato a trovarlo. La sua forma di vita, però, era alquanto confusa, in ricerca continua, senza sosta. Il suo percorso di vita, perciò, non permetteva ancora a nessuno di pensare a seguirlo e, lui stesso, non cercava compagni nella sua esperienza. Nel tempo, però, queste risonanze di una vita penitenziale, dura, impegnata e singolare, di Francesco, colpì, ancor di più alcuni dei suoi amici come Bernardo da Quintavalle, Pietro Cattàni, Morico, Giovanni, Filippo, Angelo, Giovanni Barbaro. Questi si avvicinarono a Francesco e cercarono di dialogare con lui, poiché, essi furono attratti dalla sua prospettiva di vita. Egli invitò questi primi compagni a rivolgersi, anche loro, al creatore, a chiedere perdono ed a stare nella creazione per vivere, così, riconciliati in Cristo. Cercò di trasmettere ai nuovi arrivati ciò che sapeva sulla fede e sulle esperienze cristiane e crociate che prete Bertrando aveva comunicato. Anche per questi nuovi compagni il prete teutonico ebbe buone parole attraverso i suoi sermoni. Da queste esperienze essi scoprirono in Francesco una nuova creatura, umana e cristiana, in ricerca permanente della vera pace e della verità che c’è dentro e fuori di sé stessi. Questi amici, tra cui un lebbroso, divennero i primi compagni di Francesco. In poco tempo , il nuovo eremita, si ritrovò in compagnia di coloro che aveva salutato. Altri avendo sentito parlare di lui, della sua storia cavalleresca, della sua conversione e apertura alla creazione, alla pace e alla penitenza, vollero conoscerlo e, da questi incontri, nessuno tornava scontento o deluso. Presto la sua fama divenne leggenda, quasi un mito delle antiche epoche che si poteva accostare nelle vicinanze di Assisi. L’impatto con i nuovi venuti non fu facile per Francesco, egli stesso non sapeva che fare, si sentiva anche un po’ disturbato nella sua quiete da tutta questa umanità che compariva nel suo percorso solitario. Alcuni chiesero di poter praticare quello che lui stava facendo e ciò lo colse impreparato poiché lui non aveva in mente una religione di tal fatta. Ma nel gruppo vi era chi, con sapienza, sapeva come avvicinare Francesco e dargli il tempo per riflettere e arrivare ad una decisione nei confronti della vita di questo nuovo gruppo. Così Francesco, non senza titubanze, decise di accogliere altri fratelli nella sua esperienza. L’esempio di questa accoglienza lo aveva ricevuto dai lebbrosi che con tanto affetto lo avevano accolto tra loro. Così ebbe inizio la vita di un gruppo, alquanto nuovo per quell’epoca, composto da Francesco, da alcuni suoi amici di battaglia, da nuovi venuti, da lebbrosi e da tutta la creazione che li rivestiva in nome e per conto di Dio e della sua benevolenza. Chiese aiuto a Dio nella preghiera, anche perché lui non sapeva da che parte avrebbe dovuto incominciare e da quale altra parte sarebbe dovuto andare. Per trovare una risposta, di fronte alle richieste di questi nuovi venuti si dispose con l'animo ad una preghiera intensa Francesco ascoltava il Vangelo e riconosceva nelle parole di Cristo, che inviava i suoi discepoli, una parola per lui e per il suo gruppo. Francesco accolse con stupore questi nuovi arrivati nella selva, pensando tra sé, che essi erano un dono di Dio in risposta a quella solitudine che, a volte, cominciava ad essere spesso disturbata. Ma, la strada di Dio nei suoi confronti non prevedeva l’abbandono della solitudine, ma, la sua trasfigurazione. Con questi pensieri e atteggiamenti si dispose, non senza preoccupazioni, ad accogliere i suoi compagni. Egli non immaginava del seguito che quel gruppo avrebbe avuto, né intuiva, in quel momento, alcunché sulla missione, della quale, il Vangelo era segno e presenza. I primi tempi di questa primitiva forma di vita comune non furono facili. Francesco tendeva a custodire quella dimensione contemplativa di silenzio e preghiera che aveva conquistato con fatica in quegli anni. In particolare custodiva una parola significativa che aveva udito stando in preghiera davanti al crocifisso di Bertrando. Un giorno, di fronte all'opera teologica del prete, crociato e teologo, aveva intuito una voce che lo scuoteva dal suo torpore e gli diceva: «Francesco va e ripara la mia Chiesa che come vedi è tutta una rovina». Non aveva compreso bene il senso di quelle parole e nei suoi momenti contemplativi, chiedeva spesso, a Dio, di illuminarlo. Intanto l’entusiasmo dei suoi nuovi compagni stava sempre di più rompendo quel clima di tranquillità interiore che Francesco si era costruito non senza difficoltà, e la situazione non gli piaceva. Quell’equilibrio tra creatura e Dio che aveva scoperto gli era caro e voleva custodirlo come uno dei beni più preziosi. Egli cercò di trasmettere ai suoi primi compagni la sua esperienza ed essi furono ben contenti di mettersi in ascolto di un tale maestro di vita. Il muretto che costeggiava la chiesa di san Damiano andava serpeggiando lungo un piccolo campo in cui crescevano poche zucche ed altre ortaglie. Questa semplice costruzione, perciò, era posta a baluardo pacifico e di custodia del piccolo orto di prete Bertrando che di quella chiesa curava, anche, l'aspetto spirituale e anche quello materiale e di pancia. Prete Bertrando aveva portato con sé, nel suo viaggio di ritorno dall'oriente, semi di sesamo e altre spezie piccanti. A queste teneva in modo particolare poiché diceva che erano erbe molto ricostituenti. In più vi erano anche alcune piante da frutto e qualche cespuglio di erba aromatiche e profumate. Il muro in sé, non dava una bella impressione in quanto era basso e disconnesso, rotto e smussato in tante parti. Per questo motivo di desolazione attirò l'attenzione di Francesco. Le pietre che lo componevano, però, erano solide e ferme, e Francesco, pensò di utilizzarle per riparare le pareti e l’interno della Chiesa in base a quella voce che aveva ascoltato. Inoltre, pensava di rendere un servizio a prete Bertrando che lì aveva tanto lavorato. Francesco si riteneva pronto e pratico, si era, così, deciso e rivolto a concretizzare immediatamente ciò che aveva nella mente. La sua intraprendenza fu coronata dalla sua capacità di predisporre ogni cosa, come aveva imparato nel lavoro di bottega e, per l’educazione del padre, era anche, attento a fare bene le proprie attività. Parlò con gli altri del possibile lavoro e, data la fiducia che disponeva del prete, pensò che questi avrebbe consentito alla santa operazione, e così decise di dare l’avvio ai solenni lavori di restauro e riedificazione della chiesa che appunto era in rovina. Tutti cominciarono a lavorare sodo, chi estraeva le pietre dal vecchio muro, chi faceva la calce e chi impiastrava. Quel muro, per Francesco, era un simbolo di negatività poiché gli ricordava la prigione di Perugia. Lì, in quel carcere, in cui aveva trascorso un anno, e delle cui sembianze sapeva per filo e per segno le misure, il numero delle pietre e come esse allontanassero il mondo, la luce e la vita ai poveri prigionieri, egli era maturato come uomo e persona in senso pieno. Inoltre gli ricordava le urla di coloro che erano torturati, il sangue dei feriti, i morti con i quali doveva dormire. La demolizione del muro, per Francesco fu una catarsi degna di un dramma greco. I suoi compagni al vederlo così impegnato e pieno di una forza, quasi sovrumana, si spaventarono un poco. Essi non comprendevano il suo stato d’animo. Bernardo aveva intuito qualcosa al riguardo e gli chiese che cosa pensasse tra sé, poiché era così assorto e forsennato in quel lavoro. Egli parlò dei suoi ricordi, di quella guerra atroce, di quel muro della prigione di Perugia, simbolo di tante sofferenze. Volle ricordare, anche, il fatto che i muri, per lui, erano da ritenere costruzioni dell’uomo che servivano solo a dividere. Il peccato, diceva: «Non è, forse, che c'è un muro tra noi e Dio, tra di noi quando litighiamo, tra noi e gli altri quando li disprezziamo ?» Francesco e i suoi si misero di gran lena al lavoro per restaurare la chiesa di S. Damiano sia all’interno che all’esterno e fecero un lavoro da capomastri. Smontarono il muretto in poco tempo, non tutto però, alcune pietre le lasciarono a ricordo dell’opera come cippi e confini. In poco tempo rifinirono il lavoro e l’opera finale fu stupenda. La chiesa aveva un altare di tutto rispetto, le fiancate, all’esterno, erano state riempite con nuovi sassi e pietre di belle dimensioni. Tutto aveva l’apparenza della stabilità e dell’armonia. Ciò che aveva subito le conseguenze dell'opera di smobilitazione e restauro era certamente l’orto del prete che non avrebbe più avuto una difesa a baluardo contro i predatori della selva. Vi erano, nella zona, i cinghiali o le semplici talpe, le quali non avevano muri che impedissero ad esse l'accesso poiché erano abituate al passaggio sotterraneo con scavi e buchi degni di una vera corporazione. Francesco e i suoi primi compagni furono molto contenti della loro opera. Egli pensava che Dio sarebbe stato contento, anche lui, poiché la sua chiesa era stata degnamente aggiustata. L’unico a non condividere la grande opera di riedificazione della chiesa fu proprio il prete di san Damiano poiché lui, al suo muretto, ci teneva e gli si era affezionato. Prete Bertrando diceva che senza di esso la sua frutta se la sarebbero mangiata i ladri, la sua ortaglia sarebbe stata invasa dai cinghiali nella notte e così via. Francesco restò mortificato a riguardo della disturbata posizione di pensiero di prete Bertrando, che, nonostante l'arrabbiatura teologica e pratica, volle mantenere il cambiamento. Disse, semplicemente, a Francesco che: «Quel muretto dovevi lasciarlo al suo posto, come i discepoli di Gesù che devono rimanere e non fuggire di fronte ai pericoli. Vedi, tutto, di questa armonica Chiesa è significato teologia per la fede, e lo era anche quel muretto, del quale, è rimasta solo la sagoma...Comunque non pensiamoci più visto che lo spostamento è stato fatto con tanta maestria di incastri e smantellamenti». Francesco spiegò, con serietà, le sue ragioni teologiche, ma, il prete disse che il muretto era da sempre stato lì e non avrebbe mai pensato che qualcuno di loro si sarebbe deciso di spostarlo e mutilarlo. Il prete ascoltò le motivazioni di Francesco e dei suoi compagni e volle perdonarli amichevolmente, però, disse che da quel momento essi non dovevano più toccare o intraprendere nulla senza il suo consenso. Era un segno del fatto che il numero delle persone intorno a Francesco stava aumentando e che il luogo di S. Damiano cominciava ad essere un po’ ristretto per loro. Francesco si rivolse ai monaci del Subasio per chiedere loro un luogo dove poter stare senza causare danni, il numero del suo gruppo ormai, era aumentato in modo così rilevante. Ribadì la sua ferma posizione di non voler costruire nulla con pietre, poiché, lui, di carceri e di oppressioni ne aveva subite abbastanza, in tempo di guerra comunale e familiare. I monaci gli offrirono una parte di selva a sud di Assisi dove vi era una piccolissima chiesa dedicata alla Madonna. Lì, nei dintorni, in spazi ancora selvaggi, avrebbero potuto abitare. In quei luoghi, nelle vicinanze alla chiesa della Porziuncola, Francesco e i suoi primi compagni andarono a vivere nell’anno 1208. In quel periodo Francesco volle che il gruppo minore si disponesse alla vita semplice ed eremitica. Egli riteneva importante l’attività dell’annuncio della pace di Cristo, che aveva incontrato, nell’armonia della creazione. I primi predicatori della pace si rivolsero alla loro esperienza di evangelizzazione con questo criterio, a due a due per custodire uno spirito contemplativo ed evitare così il chiasso vuoto delle chiacchiere di gruppo. S’incamminarono così sulle strade del loro tempo e il loro apparire nella società del libero comune medioevale divenne presto segno e orizzonte per molti. Il gruppo che andò ingrandendosi sempre di più e che risiedeva vicino alla Porziuncola riconobbe in Francesco la sua guida, e, nonostante le perplessità iniziali, egli acconsentì ad un tale compito. Egli chiedeva spesso in preghiera a Dio di comprendere la sua volontà e diceva: «Signore che cosa vuoi che io faccia?» Nei momenti difficili pensava, anche, ad andarsene da quella compagnia per ritornare alla sua tranquillità solitaria della selva e dei suoni della natura. Si interrogò su varie disposizioni dell'animo, se effettivamente Dio li avesse chiamati tutti insieme ad una nuova forma di vita. Secondo l'idea di Francesco questa forma di vita religiosa, avrebbe dovuto abbracciare l’eremo e la città, anche se la modalità di questa disposizione gli sembrava alquanto ardua. Si rese conto sempre di più di non poter decidere da solo il futuro di quel gruppo, tanto vario, e cercò di parlare un po’ con tutti per capire anche nel dialogo, che cosa si potesse fare. Alcuni gli fecero notare che era ben difficile conciliare l’eremo, al quale lui teneva, e la vita comune. Lui volle sottolineare che teneva alla contemplazione come a sua madre e all’eremitismo come a suo padre. Queste difficoltà spinsero Francesco a non volersi pronunciare per una forma di vita particolare ma ad attendere, poiché, diceva, «Dio ci farà capire la sua volontà». Intanto, potevano pensare ad una piccola fraternità in cui fare esperienza della preghiera e della pace di Cristo. Francesco faceva notare: «Di quale pace andremo parlando se non riusciamo a scoprirla in noi e nel creato»? I primi compagni di Francesco si confrontarono sulle loro credenze, sulla loro fede, sulle loro aspettative. Questo clima durò qualche mese e tutti si resero conto di non poter giungere con le loro forze e in poco tempo a grandi conclusioni. Decisero di recarsi in pellegrinaggio, come si usava a quel tempo, qualcuno andò a Roma, altri a a Compostella e altri ancora nel Nord, per chiedere a Dio un’illuminazione sul da farsi. Non si lasciarono però senza un appuntamento di lì ad alcuni mesi per rimettersi a confronto e, in seguito, decidere sul loro futuro. Alcuni chiesero a Francesco come avrebbero dovuto vivere in quel periodo e lui disse loro di pregare le preghiere che sapevano, i pater, di sostare in silenzio di fronte al creato e ascoltare. Invitava a sostare nelle chiese che avrebbero incontrato sul loro cammino e in quei luoghi avrebbero potuto ringraziare Dio con queste parole: «Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, qui e in tutte le chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo perché con la tua santa croce hai redento il mondo». Inoltre li invitò a vivere la pace tra loro perché diceva: «L’annunciatore della pace di Cristo deve prima essere abitatore di questa pace nel suo cuore». Disse di non prendere nulla con se fatta eccezione per lo stretto necessario, voleva che ciascuno confidasse nella provvidenza di Dio e nella fede in lui. Si congedò così dal gruppo, anche lui per il suo itinerario, non senza avere ricordato che ciascuno prima di tutto, avrebbe dovuto evangelizzare se stesso, fare pace in se, prima di portarla agli altri. Francesco si accorse che stava per avvenire un cambiamento nella sua storia e in quella dei suoi compagni. Di lì a poco il gruppo si sarebbe riunito di nuovo e lui si chiedeva se non sarebbe stata cosa migliore salutare tutti e lasciare che ciascuno facesse la sua strada. Con questi pensieri era partito insieme ad un compagno, verso la meta del suo pellegrinaggio. Il compagno non sapeva che cosa consigliare, di fronte ai liberi pensieri di Francesco, ma, egli si dimostrava capace di ascoltare e da ciò, Francesco, ne trasse grande beneficio. In questo periodo della sua vita Francesco, fu veramente posto nella duplice possibilità di ritornare alla sua eremitica solitudine o di intraprendere una nuova esperienza. Nel 1209 il gruppo si ritrovò ad Assisi e Francesco fu molto ben impressionato dall’entusiasmo dei frati, dal loro essere ancora lì tutti insieme. Si raccontarono a vicenda gli incontri e le difficoltà del pellegrinaggio comune, alcuni erano dovuti fuggire, altri invece avevano trovato delle buone persone. Passato il tempo del ritrovamento entusiasta, Francesco, riportò il gruppo alla riflessione e al dialogo sul futuro di quella fraternità di minori. In particolare, volle che Bernardo di Quintavalle e Pietro Cattàni assumessero un ruolo più evidente nella ricerca di un percorso adatto a tutti, verso l’elaborazione di una vera e propria forma di vita, di religione e di fede. Il risultato parziale di questo travaglio fu il rinnovato ardore dei nuovi compagni ritrovati che si misero a discutere e pregare, e non solo a pensare, per una forma di vita che potesse comprendere sia la contemplazione che l’apostolato della missione e della fraternità itinerante. Erano parole nuove e significative per quell’epoca, ma, la loro giovane età li spingeva ad andare sempre oltre le loro attese e perplessità.
L’ordine
francescano
Scosso, ormai definitivamente, da questa vocazione di Dio alla fraternità, riconosciuta nel fatto che venivano a lui molti giovani e adulti, per condurre, insieme, la vita evangelica, Francesco, decise, su invito del Vescovo Guido, di recarsi a Roma insieme ai suoi compagni. Lì, davanti alla cattedra del successore di Pietro, avrebbe domandato consiglio al Papa stesso e alla sua curia su ciò che avrebbero dovuto fare in nome di Dio e della Chiesa. Decisero così insieme di rivolgersi al signor Papa Innocenzo III per chiedere luce sul loro cammino. Francesco perciò, mise da parte, almeno per quel periodo, l’idea di ritornarsene alla sua solitudine, e si dedicò con tutto se stesso a preparare questo incontro con il signor Papa. Dopo aver discusso su alcune linee fondamentali, sull'esperienza contemplativa e sulla fraternità che dovevano ossigenare la vita del gruppo. Così, Francesco, si dispose, insieme a Quintavalle e Cattàni, al viaggio. Prima di partire volle, però, ricordare che lui era illetterato e che non avrebbe parlato col signor Papa. Perciò decisero insieme che avrebbe parlato, a nome del gruppo dei minori, Pietro Cattàni, prete e minore, benedetto da Dio e ispirato dallo Spirito. Cattàni si diceva indegno, quanto Francesco, di un tale compito, ma Francesco stesso e gli altri invitarono il prete teologo, a non fare troppe storie, poiché, era l’unico di quel gruppo, di minori illetterati, che avrebbe potuto parlare con senno e senza strafalcioni o contorsioni al Papa, alla curia e a tutti i prelati presenti a quel futuro incontro. Francesco e il suo gruppo partirono per Roma, a piedi, come era d’uso, e dopo otto giorni di cammino e due di sosta, non senza difficoltà di ogni genere, arrivarono alla città di Pietro. Erano stanchi e felici, preoccupati e severi nell’incedere secondo il piano di Dio sulla loro vita. Arrivati alla porta di Flaminio furono fermati dalle guardie. Vi erano molti pellegrini, poveri e mercanti, tutti desideravano transitare, per vari motivi di fede e di mercato, di lavoro e di opinione, nella città. Le guardie vollero vedere i loro documenti accompagnatori che avrebbero dovuto testimoniare la loro identità. Spiegarono bene la loro intenzione di recarsi dal Papa e presentarono la lettera del Vescovo Guido. La guardia chiamò il capo-posto e questi condusse il gruppo dall’ufficiale della guardia. Questi fece molte domande, in particolare, voleva approfondire la motivazione del soggiorno di quel gruppo minore e, così, preoccupante per l'aspetto. Essi provenivano da un libero comune e le guardie erano attente ad eventuali sedizioni e rivolte contro ogni sovrano. Il capo delle guardie non trovò in loro nulla di sedizioso, fatta eccezione della puzza che emanavano. Su questa situazione odorosa del gruppo, la guardia fu intransigente, prima di entrare dovevano lavarsi a lungo, liberarsi dai pidocchi e dalle pulci, nettarsi ancora e disinfestarsi ulteriormente. Queste precauzioni erano necessarie e dovute ad evitare che s'introducessero, in Roma, peste bubbonica o altre malattie perniciose. Marcodario, questo era il nome solenne della guardia, fece notare che in certi posti si era accolti solo con una dovuta cura della persona. La città di Roma e i palazzi papali, nei quali essi ambivano entrare, non dovevano essere lordati da chicchessia. Francesco non fu sorpreso di tale accoglienza e tanto meno i suoi compagni di viaggio. Arrivarono al palazzo del Lateràno accompagnati da una guardia fin dalla porta Flaminia. Questo soldato parlò con la guardia del Lateràno e salutò il gruppo, non senza avere chiesto denaro per il servizio offerto. Furono così accolti nella corte papale di Papa Innocenzo III, il giorno seguente. Pietro Cattàni, parlò così a nome del gruppo e la sua semplice sapienza fu ben accolta dal successore di Pietro. La scelta di far parlare solo Cattàni era dovuta al fatto che Francesco sapeva, si, di lettere, ma, nella sua lingua, in volgare. Il latino era per lui una lingua complicata poiché, dopo avere concluso i rudimenti dello studio, per poter leggere e scrivere, da subito, era stato avviato alla bottega mercantile del padre. Anzi, se avesse ardito di parlare lui soltanto, probabilmente, il gruppo sarebbe stato espulso in breve tempo e, forse sarebbero stati, anche, bruciacchiati e scorticati come incenso umano a lode e gloria di Dio. Cattàni inoltre aveva lavorato sodo per dare un senso teologico ed ecclesiale a tutto quello che stava accadendo tra di loro e la sua elaborazione teologica e spirituale non era da poco conto. In fondo, solo lui avrebbe potuto districarsi in così tante difficoltà di lingua e di religione, di fede e di teologia nonché di gentilezza e fermezza negli intenti.. Cattàni aveva preso sul serio questo compito e fin da prima della partenza e, ancora durante il viaggio, si era preparato. In particolare aveva elaborato un concione papale, come lui simpaticamente diceva. Furono fatti entrare e accomodare alla presenza del Papa e del suo uditorio. Tutti in piedi, Cattàni più avanti di tutti al cospetto del Papa mentre gli altri due posti a debita distanza e sorvegliati in cagnesco. Il gruppo di uditori era formato dal Papa stesso, da due segretari, un cancelliere, due vescovi, due preti della curia e un diacono amministratore, e infine due teologi personali del papa, uno per le realtà spirituali e uno per le realtà materiali. Il gruppo dei minori invece era formato da Francesco, Cattàni, il prete, e da Quintavalle che, per il suo aspetto gioviale, infondeva simpatia ed era stato scelto da Francesco perché forte e capace di reggere un viaggio faticoso, sia dal punto di vista fisico e sia da quello spirituale. Soprattutto, aveva scelto Bernardo per il suo carattere, era capace di controllarsi di fronte ai pericoli più immediati e di trovare sempre una giusta soluzione agli accadimenti, egli era un vero cavaliere. Certamente l’impressione iniziale, infusa dai tre, non fu delle migliori, avevano abiti approssimativi, tre facce da bosco e un linguaggio da longobardi. L'unica eccezione all'impressione negativa era per Cattàni che sapeva presentarsi con dignità nonostante la scarsità di mezzi. Cattàni era stato studioso di lettere latine ed era, ancora, oratore virtuoso e incallito, nonché, ardito teologo di campagna e frate minore. Queste caratteristiche non erano andate perdute nel suo ingresso, insieme agli altri, nella vita della selva e dell'eremitaggio. A Roma avrebbe, così, dimostrato a Francesco e a Bernardo, al Papa e alla curia, tutto il suo talento. Dapprima fu letta dal cancelliere la lettera accompagnatoria del Vescovo Guido. Di seguito il prete Cattàni iniziò il suo discorso, con gravità e semplicità, davanti all’uditorio più importante della sua vita, fino a quel momento. Poi, Cattàni, con la sua eloquenza, introdusse gli uditori alla comprensione della loro esperienza. Dapprima elencò semplicemente delle date per far capire come la loro vita evangelica fosse iniziata e poi aggiunse le motivazioni che sostenevano quella religione, cioè l’esperienza di Dio, secondo il vangelo. Sottolineò, come voleva Francesco, che il loro gruppo avrebbe vissuto la vita contemplativa e la vita apostolica cercando di porre in armonia queste prospettive come compito e vocazione. L’eremo, il silenzio e l’evangelizzazione e la fraternità venivano così annunciati anche al signor Papa e alla sua curia. Il Papa ascoltava con grande attenzione, mentre i curiali erano fievoli d’udito, sonnecchianti e senza particolari interessi di famiglia per quel gruppo così scombinato. Spesso i consiglieri papali ridacchiavano con noncuranza di fronte alla forma di vita di quel gruppo e alle proposte così nuove per quell‘epoca. In quel momento il Signor Papa pensava molto alla chiesa, egli era attento alle parole di Cattàni, ma, era, ancor di più, incuriosito, anche, dagli altri due che erano dietro alle guardie e che riusciva solo a intravedere. In particolare il Papa era preoccupato per i gruppi ereticali che sorgevano e si diffondevano con una falsa religione, perciò era attento a quello che Cattàni diceva sulle intenzioni del suo gruppo. Il, frate e prete, Cattàni continuava, intanto, il suo discorso sfoggiando la sua arte oratoria, semplice e convinta. Egli indicava quali fossero le intenzioni dei minori di Assisi, le vicende che avevano caratterizzato quegli anni, la decisione di vivere secondo il vangelo in povertà. Infine sottolineò l’annuncio del Vangelo della pace in una società che faceva della guerra il suo punto d’onore. Il Papa chiese loro quale tipo di attività avessero in mente e Cattàni dispose, con verità, un discorso sulla vita evangelica come fratelli e sulla pace, sull’annuncio del Vangelo di Gesù Nostro Signore. Loro, sarebbero stati i banditori della pace, i servi e i cantori dell’armonia di tutte le creature, dell’umanità in nome di Dio. Avrebbero, così indicato, a loro stessi e al mondo, che il Vangelo aveva una risonanza immediata sulla vita attraverso la misericordia vissuta nei loro rapporti interpersonali e trasmessa e annunciata all’esterno. Dopo una breve pausa, alcuni teologi furono consultati dal gruppo degli uditori e collaboratori del Papa per dare il loro parere su queste posizioni. Uno fu nettamente a sfavore della teoria evangelica di Cattàni poiché questa avrebbe suscitato scandalo e reso la cristianità esposta al dominio maomettano. Secondo l'opinione di questo teologo papale, Cattàni, avrebbe favorito una teologia per orti di campagna più che per la Chiesa di Cristo. L’altro teologo, quello per il consiglio spirituale, colse la profondità del discorso, ma anche, la necessità di approfondire i temi trattati e di continuare ad ascoltare. Egli pose un quesito a Cattàni in questi termini: «Voi proponete di vivere la contemplazione, il silenzio e la preghiera insieme all’evangelizzazione della pace. Non vi sembra, Cattàni, una prospettiva antitetica poiché entrambe si squalificano a vicenda ?». Cattàni stette un attimo in silenzio, più per riverenza che per il non saper rispondere, e poi cominciò il suo capolavoro di oratoria papale tanto elaborato nel suo meditare quotidiano. «Vostra santità teologica», cominciò Cattàni, «desidero farvi notare come sia, quello accennato, un problema attuale nella chiesa che da pochi decenni s’è divisa in due tra Oriente e Occidente, nel 1054». Il Papa, insieme a tutto il gruppo di uditori, si fece attento poiché il problema sollevato era importante per la vita stessa del gruppo e anche, come indicò Cattàni, per la Chiesa stessa. «Dividendosi dalla Chiesa d’oriente», continuò Cattàni, ormai al centro dell’attenzione di tutti, «la Chiesa di Roma ha perso un polmone, una prospettiva di vita teologica e pratica poiché l’oriente e la sua teologia contemplativa del mistero di Dio serve ed è utile alla chiesa di Roma come il Vangelo stesso». «Lo Spirito Santo soffia dove vuole, dice Gesù nel Vangelo, e il nostro gruppo è stato beneficato da questo soffio poiché noi abbiamo cercato di vivere fino ad ora la contemplazione, il silenzio, l’eremo e la missione evangelica della pace, nelle città comunali e in quelle imperiali».»Quei due aspetti che si sono separati nella chiesa di Roma e Costantinopoli ora sono parte della nostra vita. Quasi a richiamo all’unità della Chiesa e non alla sua divisione». Il teologo, che aveva posto la domanda, disse che la divisione nella Chiesa era avvenuta non tanto per quei motivi detti da Cattàni, ma, perché la Chiesa di Costantinopoli non voleva riconoscere la principalità della chiesa di Roma. Cattàni rispose che quella posizione era vera, però, essa significava, anche, un peccato di tutte e due le chiese che volevano essere, entrambe, superiori l’una all’altra. Non c’era motivo, secondo Cattàni, di dividere la Chiesa a quel modo. Il teologo papale, a quel punto, citò due documenti reciproci delle due Chiese, nei quali, una chiesa scomunicava l’altra. Il Papa fu contento di quel dibattito e quelle parole, dette da un prete poverello, nonché teologo di campagna, gli sembravano la giusta immagine della condizione della Chiesa. Il Papa, così devotamente interessato, domandò, di conseguenza, a Cattàni, in quale modo egli fosse venuto a conoscenza di quelle verità non ancora così esplicite per tutti. Cattàni affermò di conoscere la Chiesa dell’oriente per aver ascoltato i racconti di vescovi, di preti e di crociati e inoltre di essere studioso, di questo fatto storico, da quando, aveva appreso, della drammatica divisione. Egli voleva cercare le motivazioni teologiche e storiche di quel triste evento che era avvenuto più nei vertici della Chiesa che tra i cristiani, secondo lui. Cattàni non disse, però, che il suo interlocutore principale, dal quale aveva ricevuto tutte queste istruzioni teologiche e storiche, era prete Bertrando Anselmo, Ulfo per gli amici, prete e teologo, assistente crociato e teutonico d'origine. Nei suoi dialoghi con questo prete, vero teutonico italiano, Cattàni aveva appreso di tutto e di più sulla teologia della chiesa, sulla storia e sul Vangelo più del suo apprendistato, più dei libri che aveva letto in quantità considerevole. Cattàni sottolineò l’aspetto dell’ispirazione del gruppo a sostegno di questa cura spirituale alla malattia di divisione nella chiesa, del bisogno che la chiesa ritornasse a proclamare il vangelo e a vivere la pace di Cristo. Da qui sottolineò anche l’aspetto della povertà nella quale volevano vivere e del fatto che non volevano rinchiudersi tra mura come avveniva per le religioni di quell’epoca. Uno dei vescovi presenti chiese a Cattàni in quale modo, il gruppo, aveva intenzione di mantenersi, e questi spiegò che la loro fiducia era posta nel lavoro e nella provvidenza di Dio. Il vescovo sorrise e indicò, con un gesto della mano, i loro vestiti. Il Papa continuò il discorso dicendo che il gruppo assomigliava di più ad un gruppo di custodi di animali che di religiosi annunciatori del vangelo. Francesco avrebbe voluto intervenire, ma, il buon senso, lo fece desistere, poiché pensava che anche quella prova era stata richiesta per affermare il valore di un dono dello Spirito di Dio, che non era lui a darsi. La fraternità e il gruppo evangelico che stava iniziando una vita, a volte anche in contrasto con le idee ed esigenze personali di Francesco stava, così, preparando, nel colloquio col Papa, il suo futuro. Anche qui Francesco si accorse di dover lasciare spazio allo Spirito del Signore e alla sua santa operazione che disponeva secondo il disegno di Dio la storia di questa nuova religione. Per quel giorno la curia romana decise che ci si poteva fermare e riflettere. Cattàni fece notare che non potevano stabilirsi a Roma per molto tempo, poiché, erano senza denaro, senza lavoro e abitazione. Il Papa dispose che venissero accolti nella casa ospitaliera, che nell'eventualità, il cancelliere avesse trovato disponibile per loro, in quel periodo, e così fu. Trovarono ricovero presso i monaci di san Benedetto fuori le porte di Roma e qui trascorsero, ben accolti, i giorni di attesa prima della nuova udienza. Francesco disse che, quella, sarebbe stata l’ultima volta nella quale avrebbe dimorato in un monastero, si sentiva solo soffocare da quelle strutture così cariche di buio. Lo fece, quella volta, solo per i frati, per la Chiesa e per non causare danni o divisioni con le sue idee che non voleva diventassero mura a loro volta. L’unica cosa buona che intravedeva nella vita monastica era il silenzio e stava volentieri in silenzio, vicino all’uscita del monastero però. Pochi giorni dopo il gruppo dei minori di Assisi fu di nuovo riaccolto in udienza presso la curia romana. Cattàni, nel soggiorno presso i monaci si era rinvigorito di peso e di faccia, egli riuscì a rassicurare il Papa con la sua capacità di oratore. Questo prete con la sua stima e simpatia riuscì a trasmettere quella fiducia necessaria a continuare un dialogo così importante per la vita di quel gruppo. Il cancelliere fece notare al Papa che quel giorno altri gruppi di fedeli attendevano per l’udienza e così Innocenzo III dispose le sue considerazioni. Egli invitava il gruppo dei minori di Assisi a continuare a vivere religiosamente secondo il canone dei voti di povertà, castità, obbedienza e fraternità. Avrebbero dovuto darsi, secondo il Papa, una struttura giuridica nella tradizione del diritto della Chiesa che lui stesso stava sistemando. Essi avrebbero dovuto svolgere la loro vita, come promesso nel loro proposito al Papa, con il loro lavoro e con una predicazione incentrata sulla pace di Cristo poiché il mondo aveva bisogno di una tale indicazione dallo Spirito. Essi sarebbero dovuti ricorrere al loro Vescovo Guido per ogni necessità che avesse riguardato la Chiesa e la loro forma di vita. La legge della Chiesa era il loro diritto proprio, perciò, erano da ritenersi nello stato religioso, a tutti gli effetti, per un periodo di prova da definire. Avevano il dovere di pregare con il breviario liturgico, il dovere di recare l’Eucarestia nelle loro dimore per i malati, il diritto di predicare l’annuncio della pace di Cristo laddove i Vescovi l’avessero ritenuto utile per l’edificazione dei credenti. Se qualcuno di questo gruppo avesse voluto appartenere ai chierici avrebbe dovuto studiare le lettere in modo corretto e la teologia della Chiesa sotto la giurisdizione del vescovo proprio e inoltre, avrebbero dovuto lavarsi più spesso. Nessuno doveva improvvisarsi predicatore, a nome della Chiesa, senza autorizzazione. Nessuno, ancora, doveva divulgare alcunché sulle guerre crociate in quanto tutte le informazioni erano un segreto militare. Il Papa vedeva in loro una novità per la chiesa e ne era colpito e preoccupato, vista e considerata l’attività dei movimenti ereticali sorti nel sud della terra francese e il loro influsso. A questo riguardo ricordò che nessuno poteva possedere per suo conto la S. Scrittura, la Parola di Dio. Il Papa invitava ad ascoltare la Parola di Dio nelle giuste celebrazioni della santa Chiesa e anche, ammoniva a non farsi interpreti scellerati senza il dovuto studio e autorizzazione. Pensò, tra sé, che quel gruppo di uomini, poveri, ma convinti di quel che stavano facendo, poteva diventare una grande risorsa per tutta la Chiesa e nello stesso tempo era preoccupato delle incertezze del futuro che, comunque, trasparivano da una così malridotta compagnia. Papa Innocenzo volle indicare, come era d’uso, al suo cancelliere, in modo preciso, i termini della questione riguardo a questo gruppo di minori. Ordinò di redigere una lettera, in forma di consiglio, in cui elencare i vari punti evidenziati nel dialogo con il gruppo. Aggiunse che quello scritto avrebbe dovuto accompagnare la vita di questo gruppo. Egli, sottolineò, che il gruppo dei minori di Assisi si sarebbe dovuto impegnare secondo i propositi di vita evangelica, secondo la pace di Cristo e, altresì, impegnarsi nella stesura di una regola di vita precisa da sottoporre, in un tempo successivo, alla sua autorità apostolica. Allo scopo, invitava, il prete Pietro Cattàni, a fermarsi presso la curia per aiutare il cancelliere nella redazione della lettera. Il gruppo perciò dovette restare a Roma ancora qualche giorno per dare tempo al cancelliere e a Cattàni di redigere un documento intelligente. Intanto Francesco e Bernardo visitarono Roma, le Basiliche, e fecero così del viaggio un pellegrinaggio. Terminate le incombenze papali e curiali, il gruppo minore, si mise sulla strada del ritorno. Il percorso era già noto e decisero di non fare divagazioni di sorta alla strada principale. Al loro ritorno nella selva di Assisi, Francesco, Cattàni e Quintavalle, furono accolti con tripudio da tutti i frati presenti. Quando videro prete Bertrando lo ringraziarono infinitamente poiché anche lui con le sue idee sulla chiesa e su Dio aveva aiutato i minori ad essere riconosciuti degni di vivere una forma di vita nella chiesa di Cristo. Si disposero così a vivere la contemplazione di Dio e la missione, il silenzio e l’evangelizzazione della pace, l’eremo e la città, la solitudine e la fraternità. Queste prospettive divennero la vita di un gruppo, molto variegato, in cui alcuni proponevano più silenzio mentre altri proponevano più evangelizzazione, più contemplazione oppure più città da visitare e la loro vita ondeggiava come una bilancia su cui si alternavano diversi pesi. Questa altalena di sentimenti e desideri indicava, una dimensione di incertezza, ma anche, una ricchezza di forme. L'esperienza di quel gruppo di minori era, certamente ricca di immagini, anche contraddittorie, simboliche, a volte difficili da interpretare, ma, di fatto, quella vita reggeva, era possibile e fu proprio per questo che essa si affermò sempre di più nella vita stessa della Chiesa. L’andare dall’eremo alla città e il ritornare nei romitori era la vita dei frati minori e presto divenne luce e illuminazione per la fede di molte persone e occasione di ristrutturazione per tutta la Chiesa. Da lì a poco si misero al lavoro, d’intelletto e d’esperienza, per condurre con semplicità e verità la loro vita. Queste furono le condizioni e gli atteggiamenti nei quali si sviluppò la redazione di una vera e propria regola del loro ordine. Francesco, in seguito alle variegate discussioni e fantasie di ciascun componente del gruppo, pensò ad una regola con poche parole. Diceva con convinzione che se le parole fossero state troppe sarebbe avvenuto come a Pisa, dove, avevano costruito una torre con tante pietre fino a provocarne la pendenza per il troppo peso e l’esagerata altezza. Il Vangelo secondo lui doveva essere il riferimento principale, come il giardino da custodire con cura,costituito da brevi proposizioni sulla loro vita. Volle così indicare solo alcune idee di fondo per uno stile di vita posto tra la terra e il cielo, come soleva ripetere, tra la creazione e Dio, tra città e deserto, in cui i frati dovevano dimorare. Solo così potevano essere liberi di poter annunciare il Vangelo della pace di Cristo, viverlo personalmente e fraternamente. Volle che i frati minori fossero liberi dalle catene di una regola monastica o religiosa fino ad indicare il cielo come tetto della loro casa e la terra come pavimento. Negli ordini religiosi, monastici o meno, vigeva il rapporto di sudditanza tra inferiori e superiori, ancora segno, secondo lui, di una divisione, più che di una comunione, tra fratelli. Perciò non volle che l’anziano dei frati fosse ritenuto superiore ad essi ma primo minore e servo della comunione nella fraternità.
Chiamò il rappresentante di ogni gruppo di minori, il frate guardiano, questi avrebbe dovuto fare la guardia prima di tutto a se stesso per non voler dominare gli altri ma servirli. L’equilibrio all’interno della fraternità non doveva ispirarsi per Francesco allo stile degli ordini religiosi del tempo. Essi, sorti in precedenza nella tradizione, non dimostravano una vita di fraternità, come quella a cui erano chiamati i frati minori. «I frati dovrebbero vivere nella reciprocità che la creazione e il Figlio di Dio hanno loro insegnate, e anche, nell‘obbedienza alla Chiesa», diceva Francesco, a coloro che gli proponevano di imitare le regole di Benedetto e Agostino. Perciò egli assunse il Vangelo come suo proposito di vita e così semplicemente voleva che i frati si disponessero a viverlo. «Poiché», diceva, «nel Vangelo è racchiusa la volontà del Signore utile a convertirsi e fare della propria vita un’offerta», e citava volentieri molti passi della sacra scrittura al riguardo. Effettivamente quello stile di vita lo aiutò insieme ai frati a vivere e ad annunciare il Vangelo in tutte le direzioni della terra. Nel 1211 si propose di nuovo una missione in Siria e partì con grande entusiasmo. Il Vangelo della pace portava Francesco, di nuovo, sulle strade, ma, i disegni di Dio lo volevano, ancora insieme, al suo gruppo. La spedizione missionaria in terra santa finì sulle coste della Dalmazia e fu, per Francesco, l’ennesimo fallimento di un sogno tanto cercato. Al ritorno si accorse che la vita comune della nuova fraternità gli era letteralmente calata addosso e ne sentiva il peso come non mai in precedenza. Egli rileggeva la sua vita trascorsa, la sua conversione al Vangelo e si chiedeva che cosa Dio avesse mai voluto da lui. Gli sembrava di essere di fronte alla richiesta di una nuova conversione, un passo avanti nei confronti della precedente. Una conversione che comportava il darsi completamente nella vita di un gruppo, i frati minori dei quali era stato spettatore e attore nella loro nascita. Creazione e fraternità diventavano gli spazi di vita concessi per la sua esistenza, certamente non capiva in che modo sarebbe stato possibile conciliare il suo bisogno di solitudine con la vita comune, l’eremo e la contemplazione con la fraternità, l’evangelizzazione di se stesso con l’evangelizzazione del mondo. Si affidò a Cristo con tutto se stesso affinché questi gli indicasse la strada da percorrere. Con questi pensieri era di ritorno dalla tentata missione in Siria, era già sbarcato ad Ancona e percorreva le strade dell’Italia centrale per tornare ancora una volta ad Assisi. Pensava, tra sé, alla sua inettitudine a predicare e forse era quello il motivo per cui non riusciva a raggiungere i maomettani. Ancor di più, si sentiva confermato dalla vita a ritornare all'esperienza di contemplazione e di eremo nella bellezza della creazione. Fu proprio la creazione a richiamare Francesco alla sua vocazione, a dargli quella luce che tanto cercava sul suo futuro. Decise così, su quel percorso, di ritornare alle piccole creature incontrate nella solitudine poiché gli uomini non lo ascoltavano. Gli animali, le piante e le pietre, il sole e la luna, la terra infine, erano ritornati, in forza, nel suo orizzonte. Decise così di annunciare ai piccoli della terra la parola del Vangelo della pace poiché, diceva tra se, «almeno loro sono capaci di ascoltare un illetterato e un peccatore tanto protervo come me». «Fratelli e sorelle», diceva rivolgendosi alle bestiole, «dovete lodare il vostro Creatore molto e sempre, poiché egli vi diede vestiti colorati, e tutto quanto è necessario per vivere. Voi non seminate e non mietete, eppure Dio vi soccorre dispensandovi da ogni preoccupazione». Da quel tragitto tornò ad Assisi infervorato e appassionato per questa sua evangelizzazione, invitava tutti gli animali, tutte le creature viventi e inanimate a lodare Dio creatore e padre. Questa fu una nuova prospettiva che si sarebbe aperta nella vita di Francesco, una vita contemplativa e una vita comune in cui la fraternità non era composta solo da frati ma da tutto il creato, «la vera fraternità evangelica di nostro Signore Gesù Cristo», come spesso diceva. Egli vedeva i frati inseriti pienamente nella creazione e così si mise a raccogliere anche gli animali che trovava per strada e li portò con se nella selva di Rivotorto dove i suoi compagni solevano dimorare vicino alla chiesetta della Porziuncola. Alcune capre, un’oca, delle tortore addomesticate, divennero le sue familiari e semplici creature compagne di ogni giorno. I frati fecero fatica, in un primo momento, a comprendere l’agire di Francesco, ma, nell'ascolto delle sue motivazioni di fronte ai gesti e alle azioni, essi divennero consapevoli sempre di più della loro novità di vita. La fraternità doveva essere una casa non di mura o regole religiose, insisteva Francesco, ma un’abitazione fondata sulla relazione tra Padre e Figlio e Spirito Santo, come in Dio così sulla terra. Ciascun membro del gruppo doveva essere porta, tetto, finestra e dimora stabile. L’origine della regola francescana fu proprio caratterizzata da questi eventi semplici ma significativi. Fu una novità per la chiesa il concepire un gruppo di minori così strutturato e inserito nella creazione e nella società del tempo. «I rapporti vicendevoli tra i minori», diceva Francesco, «debbono assomigliare altamente alla vita della Trinità, di cui, tutta la creazione è immagine e l’uomo ne è simbolo e somiglianza». «La fraternità», sottolineava Francesco, «deve vivere in armonia con tutta la creazione di Dio», e aggiungeva, «essa deve prendere esempio da nostro Signore che nella sua vita ha cercato in tutti i modi di dimostrare l’amore del Padre per le sue creature». Con questi sentimenti e pensieri Francesco divenne ancor di più il riferimento per la crescita del piccolo ordine. Intanto giungevano voci di un gruppo di frati in quel di Bologna che stavano costruendo una casa fortificata senza tenere conto delle indicazioni di Francesco al riguardo. Francesco venne a sapere che nella pianura del nord dell'Italia, alcuni frati, avevano costruito una casa per loro, dotata di mura solide e con difese ben strutturate. Volle avere notizie particolari di questo fatto e quando ne ebbe un quadro completo disse: «Le pietre servono per le Chiese e non per rinchiudere o segregare i frati o altre persone». Gli vennero subito in ricordo i muri che aveva smantellato, quelli materiali e quelli spirituali, simboli delle oppressioni e delle ingiustizie. Il muro che ritornava spesso nella sua mente era custode delle carceri, delle oppressioni e ingiustizie, delle urla dei condannati. Non voleva in modo assoluto, che i frati costruissero case di tal fatta. Perciò decise di far demolire quella costruzione, simbolo del peccato dell’uomo, come aveva già detto, e con alcuni compagni s’incamminò, con entusiasmo e foga, alla volta di Bologna. Arrivato in quel luogo, dopo avere parlato ed ascoltato i frati, diede le sue motivazioni, teologiche e pratiche, e procedette con grande slancio, aiutato da tutti, all’ennesima demolizione di una barriera tanto inutile e perversa. Il muro smantellato era di nuovo un simbolo per lui, come lo fu quello di S. Damiano e le vicende che seguirono quell’avvenimento. Di ritorno da quell’impresa veramente cavalleresca egli cercò di spiegare ai frati che la regola del loro ordine poteva diventare anch’essa un muro di quel tipo e trasformare la loro vita comune in un inferno. «Non si può», diceva con forza, a coronamento dell'opera di smantellamento e liberazione, «circoscrivere la nostra religione con mura di pietre solide, poiché facendo così, copriremmo la luce del Vangelo che dobbiamo far brillare e così illuminare, non certo di luce nostra, la vita degli uomini». Nel corso di undici anni, circa, Francesco e i suoi vissero, sperimentarono, provarono sulla propria pelle, questo nuovo stile di vita comune, religioso ed evangelico. La fraternità universale diventava, sempre di più, il vero sogno di Francesco, un sogno che egli vedeva realizzarsi giorno dopo giorno, non senza fatiche e dolori. La gioia che Francesco incontrava in questo nuova vita di fraternità universale, fu l’anima silenziosa e sempre in movimento della sua vita interiore ed esteriore. Volle perciò con tutto se stesso che i frati divenissero i veri custodi di questa, nuova e storica, condizione
Il Vangelo
della pace
In questo periodo i frati partirono a piccoli gruppi, tutti coinvolti in una forma di vita nella quale un frate era guardiano e servitore degli altri, come Gesù che lavava i piedi ai suoi discepoli, un altro l’ortolano e uno predicatore della pace di Cristo. Ognuno metteva a disposizione i doni che aveva di intelligenza, forza fisica e morale. I frati furono sorpresi da questa prospettiva verso la quale la loro vita si stava dirigendo attraverso uno stile povero e pienamente rivolto alla lode del Creatore. Alcuni volevano dare più importanza allo studio, alla formazione clericale, altri volevano essere sempre liberi, altri ancora volevano partire per l’evangelizzazione, altri ancora non sapevano che fare. Tutte queste tensioni portarono più volte Francesco a voler, letteralmente, lasciare, ancora tutto, per tornare alla sua amata solitudine. Ma, fu riportato sulla strada della fraternità da tanti segnali che il Signore costruiva giorno per giorno intorno a lui. Uno di questi segni fu la vocazione di Chiara e delle sue sorelle che ormai stavano conducendo da tempo la loro vita comune presso S. Damiano. La vocazione di Chiara era spuntata negli anni precedenti. Chiara, come pianticella della selva di Francesco, era spuntata, chiedendo di condurre, anche lei, vita religiosa sullo stile dei minori. La sua vocazione non fu meno rocambolesca di quella di Francesco stesso. Anche per lei la famiglia preparò ritorsioni, catture e sequestri, ma alla fine dovette cedere al disegno di Dio. Il padre di Chiara era morto da molto tempo, quando lei era ancora piccolissima. Da sempre aveva condotto la sua vita con grande diligenza e la madre fu contenta del suo ritirarsi nella preghiera. Furono meno accondiscendenti i parenti nobili che intuivano, umanamente, nel futuro di povertà della giovane, una disgrazia. La Domenica delle Palme dell’anno 1212, Chiara, era stata accolta da Francesco presso la Chiesetta della Porziuncola, nella piana selvatica di Assisi. Con un semplice rito di accoglienza, Francesco, le tagliò i bellissimi capelli, come segno del suo rinnovamento femminile e religioso Entrò, così, una donna, nell’ordine dei minori e, dimorò in una Chiesa di Assisi. L’avvenimento riscosse fama in tutta la zona e presto altre giovani vollero essere con Chiara, rivolte a Cristo, per sempre, nella povertà e nella armoniosa solitudine di se stesse e delle altre. Anche per il gruppo di Chiara vi era la necessità di una regola che ordinasse il loro stile di vita e Francesco doveva prendersi cura anche di loro. Per Francesco l’avvento del nuovo gruppo dei compagni, l’arrivo di Chiara e delle sue sorelle, anch’esse interessate alla vita dei minori, divenne motivo di gioia e di preoccupazioni. In particolare egli era preoccupato per la vita di gruppo che stavano costruendo, dopo il loro incontro col signor Papa, e che aveva suscitato nuove prospettive e tanti interrogativi. Francesco si sentiva illetterato, ma, comunque, chiamato da Dio e confermato, parzialmente, dal successore di Pietro in persona, a condurre il gruppo. Insieme a Cattàni, non purtroppo a Quintavalle, che era stanco di sentir parole ed era già partito per una nuova missione, Francesco, iniziò uno studio vero e proprio della parola di Dio e delle possibili vie di vita comune che avrebbero potuto essere di riferimento per tutto il gruppo. Durante i capitoli, in cui i frati convenivano, egli esortava, ammoniva su vari temi quali l’obbedienza, la povertà, la castità, la fede. Da questo convenire dei frati nacque la parola convento come abitazione dinamica e all’aperto. Cercò di elaborare dei concioni per la predicazione itinerante sulla fede in Dio, sul Figliolo Gesù, sulla Chiesa alla quale tutti dovevano il massimo rispetto. Fece scrivere una lettera ai fedeli come traccia della predicazione di tutti i frati. In essa voleva ricordare che Gesù Cristo è il Verbo del Padre, Dio a tutti gli effetti. Diceva che egli, essendo ricco, volle vivere in povertà offrendo fiducia alla provvidenza di Dio e non alle proprie borse. Inoltre voleva ricordare l’Eucarestia come la presenza di Dio nel mondo. Voleva che di fronte a questo sacrificio del Figlio di Dio tutti si fermassero devotamente. Poi volle dare alcune indicazioni su come risvegliare la fede delle coscienze attraverso il riconoscimento dell’amore di Dio. Perciò esortava alla confessione dei peccati, a non giudicare, a digiunare dal peccato, ad amare i nemici, a non voler sembrare sapienti secondo il mondo ma secondo Dio. In particolare cercava di sottolineare il tema della pace, ma si sentiva ancora una volta illetterato e chiese l’aiuto di Cattàni per colmare quella lacuna che lo faceva soffrire. Si mise perciò in grande operazione nell’approfondimento della pace di Cristo, era il suo cruccio e il suo pane quotidiano. Dalla pace e, solo dalla pace, vissuta e praticata ogni giorno, sarebbe potuta crescere quella fraternità universale a cui anelava giorno e notte. Volle perciò trascendere tutto ciò che vi fosse di meno importante per prepararsi e vivere la pace. Con questi pensieri Francesco si disponeva ad incontrare i nuovi minori che arrivavano tra loro. Proprio un nuovo arrivato si entusiasmò, anche lui, alla pace e, dati i suoi studi, disse a Francesco che lo avrebbe aiutato a fianco di Cattàni. Francesco era contento dell’aumento dei pacifici, poiché vedeva crescere uno stile di vita sano e bello, veramente evangelico e vedeva nella pacificazione l’attività principale di tutto il gruppo. Gli venne, anche, in mente che questo, evangelizzare la pace, poteva essere davvero il modo di raggiungere i maomettani e così coronare il sogno della cavalleria nella sua vita, questa volta al servizio del vero re, Cristo Gesù. La storia del gruppo dei minori in questi anni fu ricca di conversioni alla fede cristiana e nell’arco di poco tempo il numero crebbe fino a raggiungere circa le mille persone. Francesco nel 1219 riuscì a raggiungere Damietta dove il sultano d’Egitto aveva il suo campo. Qui profuse la scienza evangelica annunciando il re della pace, Gesù Cristo, in nome del quale l’uomo non doveva mai più fare la guerra al suo fratello. Lo annunciò anche ai crociati, non senza essere ritenuto, ancora una volta, un pazzo, per le sue idee. Al ritorno da questa evangelica spedizione ultimò i preparativi della sua regola insieme a frate Pietro Cattàni che aveva svolto un lavoro prezioso. Ritrovò sorella Chiara, a san Damiano, intenta nella sua opera di edificazione della casa spirituale del suo cuore e di quello delle sue sorelle. In seguito alla sua vocazione e al numero di sorelle, che si erano aggiunte al gruppo, il Vescovo aveva concesso a questo gruppo, femminile e minore, di abitare in san Damiano. Proprio lì, dove Francesco e i suoi primi compagni avevano iniziato a condurre una vita comune e a smontare pietre e muri. Stava, così, per prendere consistenza un ordine, femminile e minore, ricco di grazia e consolazione da parte di Dio, le povere dame di san Damiano. Qualcuno le chiamava già le sorelle di Chiara o clarisse, come, del resto, chiamavano i frati minori come i fratelli di Francesco o francescani. Quando venne a sapere dell’arrivo delle sorelle povere, prete Bertrando, cercò di comprendere il significato di questo nuovo vento dello Spirito Santo che soffiava in modo travolgente nella piana di Assisi. Egli era, da un lato, contento, poiché riteneva, la vita di queste dame e signore della povertà, una forma interessante, come appunto, quella dei minori. Dall'altro lato, il prete teutonico e italiano, iniziava a preoccuparsi, poiché fino a quel momento la vita del gruppo minore si era svolta secondo la tradizione, erano tutti maschi. Dall'arrivo delle sorelle le cose religiose si complicavano, poiché, il gruppo diveniva misto, a tutti gli effetti, e di convivenze miste, lui, aveva conoscenza solo per quanto riguarda il matrimonio e non la vita religiosa. Fino ad allora si era pronunciato con grande rispetto al riguardo della forma ecclesiale e sociale dei minori, ma dall'arrivo delle femmine si disse un po' preoccupato per il futuro ecclesiale del gruppo. Bertrando riteneva la loro forma bella, una vera novità per quell'epoca e ricca di stranezze, come il voler essere poveri, il vestirsi in un certo modo cinereo e altre amenità. Di una cosa però era molto contento, precisamente del fatto che quelle giovani poverelle non avrebbero, certo, smontato muri come gli altri del loro gruppo che aveva conosciuto poco tempo prima. Per tutte queste concomitanze si recò dal Vescovo Guido e, d'accordo con lui, fece apporre una targa all'ingresso della Chiesa in cui si vietava l'accesso ai frati minori perché maschi e pericolosi anche loro. Intanto Cattàni aveva sintetizzato il pensiero di Francesco componendolo e ristrutturandolo secondo le sue indicazioni. Francesco di ritorno dalla missione ai maomettani riprese in mano la questione della regola e volle definire una volta per tutte questo lavoro. In particolare volle ricordare a questo prelato, colto e minore, le sue idee per una regola che fosse stile di vita evangelica e che non diventasse carcere e circoscrizione per i frati, ma spirito e vita. Volle prendere spunto dal Vangelo stesso per tracciare i punti salienti del loro vivere in fraternità. Il responsabile di ogni gruppo di frati doveva essere come sentinella, come guardia, prima di tutto di se stesso, sempre attenta e sveglia di fronte al nemico che avrebbe potuto insidiare la vita dei frati. Frate Pietro chiedeva spesso consiglio su come impostare questo discorso all’interno della vera e propria regola. «Desidero», aggiungeva Francesco, «che siano effettivamente guardie, quei frati messi a custodia di ogni singolo gruppo, ma, guardie di sé, del proprio orgoglio ed egoismo, sentinelle della pace e della fede, e infine, promotori dell‘armonia della creazione che loda il suo Signore». «Non sia mai da porre», volle sottolineare Francesco, «come guardiano o responsabile, un individuo venuto nell’ordine per la gloria personale, per primeggiare sugli altri o per sfruttare i frati, anzi, gli sia detto chiaramente che il suo posto è fuori dal nostro gruppo». Francesco vedeva nella figura del responsabile il vero servitore della vita della fraternità, colui che poteva sostenerla oppure distruggerla. A questo riguardo invitò ancora frate Pietro Cattàni a considerare l’esperienza del suo viaggio a Venezia, in cui, aveva conosciuto una società improntata sulla solidarietà e sul rispetto. Disse di quel filosofo, Platone, a cui, i veneziani si ispiravano per la loro convivenza. Così doveva essere anche tra i frati e nei loro rapporti. I responsabili dovevano essere come quei guardiani illuminati e sapienti nei confronti della fraternità, attenti ai governanti e a coloro che erano loro affidati. Potevano essere ispirati o meno, istruiti o illetterati, ma comunque, persone che avrebbero dovuto servire la fraternità e non dominare come signori e maggiori. Frate Pietro cercava di interpretare, a suo modo, questa terminologia di Francesco tratta dal mondo militare e filosofico. Lui non ne sapeva di guerre e caserme, era nato e cresciuto nella sua vocazione clericale ed era stato sempre al di fuori di ogni contesa del genere. Per quanto riguarda il filosofo, invece, poteva dirsi istruito al riguardo e cercò di tradurre i desideri di Francesco come meglio poteva. Cattàni si prodigò in questa redazione e riflessione, cercò di tradurre secondo uno stile canonico tutte le indicazioni di Francesco. Per fare questa opera, anche lui, si ritirò nella selva e qui trovò l'ispirazione e la quiete necessarie. Mise per iscritto i riferimenti al Vangelo della pace di Cristo. Da queste poche, ma significative riflessioni, venne di poi scritta e completata la Regola e la vita dei frati minori, la loro preghiera e le indicazioni per quelli che volevano condividere. Fu ripartita in dodici capitoli, ciascuno appropriato ad un aspetto importante. Egli sviluppò le idee della missione di Francesco, in particolare quella per cui i frati minori dovevano spendersi per diventare ed essere annunciatori e praticanti della pace di Cristo. Questo scritto, infine, fu approvato dai frati in un solenne capitolo e fu preparata così la spedizione fraterna verso Roma, dove, avrebbero chiesto la loro approvazione al nuovo signor Papa Onorio III. Papa Innocenzo era deceduto pochi anni prima, ormai esausto, per il suo enorme lavoro di ristrutturazione della chiesa, in cui, anche Francesco, con il suo gruppo di minori, aveva, così, partecipato. Anche Chiara voleva avere una certezza sulla sua forma di vita e di una regola utile a questa, e così si dispose per chiedere consiglio, in questo senso, a Francesco. I due si ritrovarono e parlarono a lungo, della possibile regola delle povere sorelle di Chiara. Francesco indicava alcuni punti da tenere presenti: la contemplazione e il silenzio, la fraternità universale e la pace di Cristo. «Con queste poche e semplici pietre», diceva a Chiara, «potrete transitare il mondo sulla barca della fede in Cristo, cioè potrete affidarvi con tutte voi stesse alla fede in Dio ed essere sostenute da una viva vicinanza della Chiesa e dei frati stessi per le vostre necessità». Chiara fu contenta di queste poche parole, ma fu anche ferma, nel suo desiderio di non possedere nulla, di essere povera in tutto. Su questo punto Francesco cercò di mitigare l’entusiasmo di Chiara che non voleva nemmeno ricorrere all’elemosina. Entrambi trovarono, comunque, una via di dialogo nonostante vi fossero diversità di vedute e di comprensione come spesso accade tra uomini e donne. Francesco consigliava a Chiara di cominciare ad evangelizzare se stessa e le sue sorelle prima di tutto. Le invitava ad imparare il servizio reciproco e solo successivamente avrebbero inteso la missione all’esterno che il Signore avrebbe loro chiesto. In Chiara era viva l’eco della missione di Francesco in terra santa e lei, per una sana e nobile ambizione, non voleva essere da meno. Francesco e Chiara, dopo questi incontri, si accorsero entrambi che anche il loro rapporto stava cambiando e i fatti successivi lo dimostrarono. La loro amicizia divenne causa di giudizi maligni da parte di qualcuno. Allora Francesco si decise ad incontrare Chiara, di persona, per l’ultima volta. Arrivò a S. Damiano, si sedette di fronte alla giovane sorella e si cosparse di cenere dal capo ai piedi, e anche intorno. Fece tutto questo senza dire parola alcuna e Chiara colse bene il significato di quel gesto. Francesco si alzò e salutò Chiara con un inchino e lei fece altrettanto. Da quel momento, i loro rapporti, furono soltanto, sulla carta, ed erano ben contenti che restassero così. Francesco convinse i suoi accusatori che in lui non vi era doppia appartenenza ad alcuna creatura ma che lui apparteneva totalmente a Dio. Si avvicinava, così, tra gioie e dolori, il tempo di una definitiva approvazione della Regola. Vi erano diversi frati impegnati nella sua stesura e studio, ma, a capo di tutto era sempre Francesco con uno stile di lavoro improntato sul dialogo e sul riconoscimento dei propositi di ciascuno. Pietro Cattàni, di lì a poco tempo, morì e non riuscì, così, a vedere il compimento del suo lavoro, tanto che Francesco ne fu molto dispiaciuto. I frati, paragonarono Cattàni, a Mosè, che aveva tanto lavorato per il suo popolo, come condottiero e legislatore, e poi non era riuscito ad entrare nella terra promessa. La scomparsa di Cattàni fu un fatto veramente doloroso, ma, oltremodo significativo, poiché, era il primo frate minore che era morto nella loro religione da poco formata. Anche questo segno fu letto in chiave positiva dalla mentalità simbolica di molti frati. Francesco pensò ad un degno sostituto per l’attività di quel frate e prete tanto importante per lui e per l’ordine intero. La figura che più era richiamata dalla sua esperienza era prete Bertrando Anselmo, Ulfo per gli amici, vero prete teutonico italianizzato, che però dal canto suo,non ne voleva minimamente sapere di vivere come loro. Un giorno Francesco chiese, al tanto stimato prete, di collaborare con lui per definire finalmente quella Regola, ma, Bertrando disse che sarebbe toccato del tutto a loro, andare a perfezionare, la loro vita. Lui in quel tempo aveva altro a cui pensare poiché era stato chiamato dal Vescovo di Assisi ad un altro incarico e prelazia. Tra i motivi vi era anche il fatto il Vescovo non vedeva bene che abitasse con donne seppur monache. Perciò Bertrando era in un momento di transizione. Era contento di quello che aveva vissuto fino ad allora, dell’opera di riedificazione di una chiesa disperata dalla guerra e dall’odio. Era preoccupato per il futuro, come tutti del resto. Doveva lasciare un luogo in cui aveva potuto diventare pienamente prete di Dio e non di guerra. Da quel luogo molto semplice, ma carico di significati, Bertrando stava, di già, per obbedienza episcopale, in fase di distacco. Pensava al suo crocifisso e diceva: «Quello viene via con me anche se è grosso, alle sorelle lascio l’icona con l’impegno scritto che non la vendano o la regalino, altrimenti, perderebbero il senso del loro stare lì». Francesco gli disse di avere fiducia poiché Dio lo avrebbe aiutato sempre. A prete Bertrando fu affidata una chiesa importante di Assisi e lui fece bene e continuò la sua opera di edificazione e sistemazione della chiesa e dei credenti. Quando arrivò alla sua nuova dimora insediò il suo crocifisso e lì stette ancora per molti anni fino alla sua vecchiaia e morte. Nel gruppo dei frati vi era un altro prete altrettanto bravo e capace di sostenere l’esame papale, in nome di tutti gli altri, e questi era Rufìno, un prelato d’Assisi, molto pio e istruito nella fede. A questo prete minore Francesco affidò la conclusione del lavoro di Cattàni. Lo incaricò, infine, della relazione della sua forma di vita presso il Papa. Rufìno, chiese a Francesco alcuni chiarimenti sulle modifiche giuridiche che era necessario apportare. Il nuovo prete e minore, redattore della Regola, insieme a Francesco, restò di stucco di fronte alla sapienza del semplice illetterato di Assisi. Francesco ribadiva che di fronte al signor Papa e, di ritorno da lui, in seguito, avrebbero dovuto, tutti, essere d’accordo nella fraternità. Ricordava, con grande considerazione, l’importanza dell’evangelizzazione della pace come caratteristica apostolica del suo gruppo. Raccontò a Rufìno del piccolo muretto di S. Damiano che avevano smantellato e del fervore di Pietro Cattàni suo amico e frate minore come lui. «Poiché», diceva Francesco, «con l’aiuto di poche pietre spirituali si può sistemare il nostro gruppo e risistemare una grande cattedrale quale è la chiesa di Cristo». E così fu, poiché nel 1223 il signor Papa Onorio III approvò definitivamente la regola dei frati minori. Da quel momento nella chiesa vi è un piccolo muretto, la regola di san Francesco, che indica un tracciato di vita nella responsabilità e nella libertà dei chiamati. Da quel tempo memorabile cominciarono ad esistere anche per il diritto canonico, appena nato nella chiesa, i frati minori che, come Francesco, non volevano stare chiusi in un recinto o in un carcere religioso, ma vivere nell’annuncio del Vangelo della pace di Cristo, nella contemplazione del creato e nella solitudine dell'eremo. Come nuove pietre tolte da un muro inutile e di nuovo poste a libero confine di un’esperienza, così, i frati si disponevano nella Chiesa e nel mondo. Pietre viventi che raffiguravano, non tanto una fortezza, ma la stabilità della vita quando si posa nella fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e salvatore dell’uomo. Dopo l’approvazione della regola Francesco era veramente stanco di dibattere, di ricordare i suoi princìpi sulla forma di vita, era anche esausto dalle continue opposizioni a molte delle sue indicazioni. Ma la regola era stata approvata e ciò lo rincuorava e lo stimolava ancor di più verso l'imitazione del suo Signore. Aveva già lasciato la massima responsabilità del gruppo, dapprima a Pietro Cattàni, e poi ad Elia, e volle che fossero a loro affidati i princìpi dell’ordine, e questi, furono i suoi successori nella vigilanza. Francesco decise di ritirarsi alla sua solitudine per un certo tempo, per pregare, per ritrovare ancora una volta il rapporto con il suo Signore. Informò i frati della sua decisione e, non senza il loro disappunto, si diresse con grande fermezza in una zona di eremi, nella Tuscia, tra il fiume Ombrone e il monte Amiata. Prima di partire li benedisse con tanto affetto e disse loro che andava a salutare sorella solitudine e fratello silenzio prima di lasciare tutti, definitivamente, da questo mondo al Padre. Egli, perciò, intuiva, già, il tempo della sua morte. Nelle selve e sui monti di quella zona un po’ impervia, Francesco, visse un periodo di silenzio e contemplazione, fecondo per lui e per tutti. I suoi compagni più vicini lo andarono spesso a visitare per informarlo e per chiedergli consigli e anche per lenire alcune sue sofferenze dell’anima e del corpo. Egli accettò che un piccolo gruppo dimorasse nelle vicinanze del suo eremo ma non voleva sentire nessuno fino a quando non si fosse ristabilito e rinsavito nella sua umanità interiore. Questi obbedirono alle esigenze di Francesco e furono contenti di abitare, anche loro, nella selva, facendo esperienza della solitudine e del deserto spirituale. Francesco così ristabilito nella sua naturale abitazione, nella selva amica e ritrovata, rileggeva la sua vita, gli venivano in mente i trascorsi, i suoi fallimenti cavallereschi e la sua fama. Ed era proprio questa fama che lo spaventava, poiché tutti lo cercavano, tutti lo volevano, e lui, che si professava povero, di beni e di fama, era diventato uno degli uomini più in vista del suo tempo e ciò gli causava grande sofferenza. Sentiva il bisogno di un distacco, senza voler definire tempi o modi, per non dover ancora una volta determinare gli altri con la sua vita. Da quel tempo egli ritornò il Francesco di san Damiano, della selva, delle grotte e dei monti, in quel mondo nuovo che egli aveva scoperto in sé e fuori di sé ancora all’inizio del suo ritirarsi dal mondo. Era anche consapevole che lo attendeva il ritorno nel gruppo, poiché aveva scelto la fraternità rinunciando così ai suoi privilegi di uomo solitario e contemplativo, consolato dallo spirito in modo unico. Con questi sentimenti, in quei luoghi solitari, nella lontana vicinanza di due frati, Francesco si dispose ad abitare per alcuni mesi. Trascorse l’inverno e compose il suo cantico, riassunto della sua vita, e motivo interiore della sua esperienza. Egli voleva rendere grazie con semplici parole come queste: «Tu sei santo, Signore Iddio che fai cose stupende». Egli volle, finalmente, ringraziare Dio per la sua vita, attraverso la creazione e con il cantico di sé. Volle dire il suo amore e il suo grazie a Dio per il cielo e le stelle, per la terra e la luna, per il vento e il fuoco, per l’acqua e infine per le malattie che doveva sostenere. Qui riassumeva e trasfigurava il periodo in cui aveva riconosciuto Dio, presente nella creazione. La solitudine non lo spaventava più poiché era stato guidato e condotto attraverso di essa nella sua esperienza. Aveva capito il senso di quella posizione dell’uomo solitario, rifletteva tra sé: "L’uomo, solo con se stesso, con le sue paure e con i suoi fantasmi, cresce e comprende l’importanza di se, di Dio e degli altri e di tutte le creature”. “Nessun uomo”, aggiungeva Francesco, “che non sappia stare da solo può ardire di dirsi capace di stare con gli altri”. Continuava così dicendo: “Nella solitudine l’uomo è costretto a crescere, a non avere più paura di se stesso e a diventare quello che Dio, da sempre, attende nei confronti dell’umanità. Tutti siamo chiamati a riconoscerlo nostro Padre, come Padre vero, in Cristo suo Figlio e nello Spirito Santo". La solitudine però non gli aveva, di certo, riempito il cuore e così continuava nella sua preghiera: "Grazie Signore perché mi hai condotto da sorella solitudine, per purificarmi e prepararmi all'incontro con i lebbrosi, con me stesso, con i fratelli, con gli amici e con i nemici, e infine all'incontro con te". La ritrovata solitudine, e sopratutto il suo significato nella vita, lo condusse alla considerazione sulla sua morte, della quale, l’eremo è anticipazione. Egli volle ringraziare Dio, anche, per sorella morte. Non perse l’occasione, nel suo cantico, di evangelizzare, poiché ricordò all’uomo di riconoscere il suo creatore, di pentirsi dei peccati e di perdonare. Aveva cercato e poi dimenticato se stesso e si era ritrovato, nella creazione di Dio, nelle creature che aveva incontrato. Da questa nobile creazione e fraternità di tutte le creature si era rivolto con fede a Dio, e proprio la fede lo sosteneva nella trasfigurazione e nel compimento del suo percorso. Qui termina questo racconto, la vita di san Francesco, invece, continua nello spazio e nel tempo della santità, dov’è bene accedere con fede e devozione.
Personaggi che ringrazio per la devota partecipazione:
Simboli di riferimento dei nomi: ( s ) = nome vero del personaggio ( f ) = nome di fantasia del personaggio
Appendice
Le strutture
dell’interpretazione
Entrando nella Basilica di S. Maria degli Angeli in Assisi si nota al centro, la Porziuncola, una piccola chiesa, cui Francesco era devotissimo. Questo luogo fu caro al santo che vi dimorava nelle vicinanze, vi pregava da solo e con i frati, vi ritornava dai suoi viaggi e dove morì nel 1226. Il fatto che una grande chiesa ne contenga una più piccola è, senz’altro, un’immagine suggestiva, che colpisce l’osservatore a vari livelli. Siamo di fronte ad un’architettura particolare. Di una chiesa che ne contiene un’altra vi è qualche limitata traccia. Una è quella di Loreto, in cui, nella basilica dedicata alla Madonna vi è la casa di Nazareth, portata lì, pietra su pietra, dai crociati. A volte troviamo delle tombe poste al centro di chiese, in cui sono venerati i santi e i martiri della fede cristiana, ma di chiese nelle chiese non ci sono molti altri riferimenti. L’architettura rimanda immediatamente al significato, al simbolo che va interpretato. Perché costruire in quel modo? Perché fare una chiesa sopra l’altra? Le motivazioni sono molteplici e offrono molte chiavi di lettura e interpretazione. Un primo aspetto è quello della conservazione della piccola chiesa attraverso la copertura con una più grande. In questo modo la piccola chiesa della Porziuncola è tuttora conservata in buono stato. Un secondo aspetto è che la chiesa ha contribuito a tenere vivo il carisma di san Francesco facendo di questo luogo una meta di molti pellegrini. Tenere presente queste prospettive è utile per incamminarci a scoprire un altro luogo simbolico del francescanesimo, il convento di Assisi in cui è sepolto san Francesco. Anche questo convento ci rimanda ad alcune considerazioni sull’onda delle precedenti. Poco tempo dopo la morte del santo un gruppo di frati decise di costruire il convento più significativo della storia dell’ordine. Anche per quanto riguarda il corpo del santo valgono le considerazioni svolte in precedenza sulle due chiese sovrapposte. Per quanto riguarda la conservazione del corpo fu pensata una chiesa all’interno del convento come luogo dove porre il sepolcro. Questa struttura rimanda a dei simboli, a dei riferimenti, che vanno interpretati. Come per la Porziuncola anche qui, vi sono motivazioni culturali, religiose, conservative, che hanno spinto a edificare questa struttura imponente. La Porziuncola e il sepolcro del santo, le chiese e i conventi annessi, rappresentano, per noi, dei luoghi espressivi per avvicinare il carisma, vale a dire il dono dello Spirito per la vita cristiana, che si è sviluppato con san Francesco. Le architetture che ho accostato evidenziano strutture che rappresentano il vestito, il corpo estetico-simbolico attraverso il quale il carisma c’è trasmesso e testimoniato. Si è subito colpiti dalle persone che abitano questi luoghi, i frati. Proprio i frati dell’ordine francescano hanno consentito, per secoli, a tutti, di venire in contatto con l’esperienza di san Francesco. I frati sono gli abitatori consuetudinari di questi luoghi, loro li custodiscono con molta cura. Vi si prega, vi si celebra l’Eucarestia, vi si svolgono incontri cui partecipano persone da tutto il mondo. I frati con la loro dedizione a questi luoghi hanno permesso che si continuasse nella storia, ad accostare a livello simbolico e culturale l’esperienza di san Francesco. Possiamo chiederci come si siano composte queste realtà religioso-abitative e se avremo pazienza di consultare biblioteche e codici vedremo come tutto è abbastanza documentato. Vi sono state diverse correnti all’interno dell’ordine francescano che hanno voluto rilevare aspetti rilevanti della vita del santo. Nello stesso tempo si sono evidenziate anche delle sovrapposizioni culturali, degli strati d’interpretazione e di conservazione. Ciò significa che questi gruppi di frati e i loro predecessori, hanno voluto conservare i luoghi significativi della vita del santo per averne un riferimento culturale ed esperienziale e non solo conservativo. Da ciò s’intuiscono tutte le varie vicende che hanno connotato l’ordine francescano nella sua storia, quali le riforme, le lotte interne in cui si voleva affermare il vero carisma di san Francesco e il gruppo che effettivamente ne era detentore.
Il gruppo dei frati rappresenta una sovrastruttura pre-comprensiva, d’interpretazione dell’esperienza di Francesco. Ciò va attentamente valutato, interpretato e studiato, per mantenere e distinguere punti di vista e chiavi di lettura. Una delle prime strutture interpretative che incontriamo come riferimento ai gruppi di frati che hanno cercato di vivere il carisma di Francesco è la stessa regola dell’ordine approvata nel 1223 da Papa Onorio III. Questa regola continua a trasmettere, in modo appropriato, il carisma del santo in un linguaggio molto semplice e comprensibile che richiede un‘interpretazione e una buona metodologia ermeneutica. Le Costituzioni dei vari ordini che s’ispirano all’osservanza di questa regola sono un’esperienza notevole proprio nell’ambito ermeneutico. Nella regola vi sono le linee fondamentali della vita secondo il vangelo, della fraternità, di coloro che vogliono seguire e sperimentare. Un’altra struttura interpretativa rilevante è la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio. Si tratta di una biografia del santo codificata proprio dal ministro generale dell’ordine in seguito alla confusione generata da tante interpretazioni e «leggende». La regola e la legenda maior rappresentano due cattedrali del pensiero, vere e proprie basiliche della teoria spirituale e storica. Esse sono sovrapposte all’esperienza di Francesco, e sono paragonabili allo sforzo architettonico messo in atto dai frati nel tempo a tutela della Porziuncola e del corpo del santo. La regola racchiude in sintesi l’esperienza di fede che il santo ha voluto mettere come norma per tutti coloro che volessero seguirlo. Una fede che si è sviluppata nella sua storia e vita e che è assunta dalla chiesa come modello di riferimento per tutto l’ordine, attraverso l’approvazione da parte del Papa. La legenda maior dispone la vita del santo utilizzando un modello interpretativo di riferimento che è tuttora da scoprire nelle sue linee essenziali. Si tratta di due scritti con orizzonti e obiettivi che, a volte, s’intersecano. Potremmo sostenere che entrambe cercano di definire un carisma dal punto di vista della fede, dell’esperienza spirituale e della vita concreta. Motivi che s’intersecano e che si nutrono a vicenda d’esperienza, di pre-comprensioni e di sovrastrutture interpretative a loro volta. Un altro documento rilevante è il Testamento del santo, redatto intorno al 1225, uno scritto ritenuto autentico, vale a dire, non scritto direttamente da san Francesco ma dettato ai frati. Il Testamento è una sintesi dell’esperienza spirituale di Francesco voluto dal santo per integrare la regola, redatta in forma giuridica, per consentire ai frati di interpretare, in altre parole, comprendere correttamente il suo insegnamento. A questi scritti si affiancano, lettere, esortazioni, ammonizioni, preghiere.
Oltre alla legenda maior che racchiude in modo teologico e mistico l’esperienza di Francesco vi sono altre biografie che danno un quadro d’insieme della vita del santo. Le biografie di Tommaso da Celano, i racconti dei Tre compagni, la Legenda perugina, lo Specchio di perfezione, i Fioretti, sono alcune delle testimonianze più efficaci su san Francesco. I generi letterari diversi come la storiografia e la legenda, in cui furono redatte queste compilazioni di fatti e interpretazioni, racconti e detti, ci fanno intuire la gran mole di letteratura che si è occupata della vita del santo nel periodo seguente la sua morte. Francesco è ritratto secondo i canoni della letteratura del tempo e, insieme alla storiografia, c’è il genere letterario della legenda che tende ad amplificare i fatti, a mettere interpretazioni che non corrispondono alla realtà. Quest’ultimo genere che fu utilizzato per descrivere eroicamente le gesta e le virtù del mondo cavalleresco, per introdurre all’amor cortese e alla cultura della cavalleria, diverrà nelle biografie di san Francesco un genere tra i più sfruttati. Un altro genere letterario rilevante, per il nostro discorso, in riferimento a questo periodo è quello della chançòn des gèstes proveniente dal sud della Francia. In esso sono narrate le vicende di cavalieri e sfide, di tornei e d’amori. L’esperienza di Francesco diviene presto legenda, chançòn, da trasmettere in molti modi. Gli esempi, in questo senso, più evidenti, sono i fatti miracolosi circondati da una suggestione di particolari e costruzioni che fanno intuire all’elaborazione della leggenda intorno ad un fatto più circoscritto. Vi sono, nei racconti della vita del santo, dei parallelismi simbolici con personaggi della Bibbia che servono a trasmettere un messaggio. Il contenuto storico e teologico, a sua volta, diventa una sovrastruttura interpretativa del singolo avvenimento. Questi passaggi fanno pensare al bisogno costante di fronte a questi scritti di una lettura interpretativa attenta alle forme, alle allegorie, ai richiami biblici che insieme conduce ad un ridimensionamento dei fatti e al riconoscimento dell‘esperienza effettiva. La verità delle situazioni presentate, dei racconti, emerge in modo velato dalle analisi che in quest’appendice possono essere solo accennate. Gli studi[1] più approfonditi su questi temi legati all’interpretazione sono tuttora in atto e ciò fa ben sperare che il futuro sia fecondo nell’ambito della conoscenza storica di san Francesco e dello sviluppo dell’ordine. Per fare un passo avanti nelle considerazioni introduttive è utile ricordare che queste sovrastrutture interpretative della vita del santo sono necessarie se non si vuole inventare, in altre parole, scoprire cose nuove sul santo da pre-comprensioni o da punti di vista non corretti. Sono necessarie poiché veicolano la verità sul santo altrimenti non reperibile da altre fonti. L’arte fa da sfondo interpretativo alla vita del santo poiché le opere, presenti in Assisi e nelle parti dell’Umbria, dove ha soggiornato, sono state elaborate sulla traccia di riscontri oggettivi. Questi riferimenti si possono trovare nei racconti dei primi compagni di Francesco. Nello stesso tempo vi fu anche, in quell’epoca, il bisogno di mettere Francesco in una certa luce piuttosto che un’altra e questi sono gli ambiti e l’impegno di un’ermeneutica dell’arte. Lo sfondo di queste opere non fu immediatamente lo scritto ma il racconto orale, probabilmente. Anch’esse rappresentano una sovrastruttura, costruita attraverso la creatività artistica, che si dispiega alla trasmissione del messaggio di Francesco e, perciò, necessita di uno sguardo non solo celebrativo ma ancora una volta ermeneutico. Nella chiesa di san Damiano Francesco riceve in modo esplicito una parola, la chiamata di Dio. Davanti al crocifisso, in preghiera, raccontano i suoi biografi, egli udì una voce che gli diceva per più volte: «Francesco va e ripara la mia chiesa, che come vedi, è tutta in rovina!»[2]. Questo è uno dei momenti indicativi dell’originale vocazione di Francesco, chiamato a vivere nella chiesa e a ripararla. Il senso di queste parole è compreso gradualmente. Riparare la chiesa significò, per lui, in un primo momento, restaurare materialmente alcuni edifici, S. Damiano, la Porziuncola. Gradualmente, il santo, intuì che la riparazione doveva cominciare dalla vita delle persone, dai cristiani di quell’epoca, da se stesso. I frati che si univano a lui rendevano chiaro questo passaggio dalla materialità delle cose, seppur belle, all’uomo e alla sua concretezza. Un passaggio che con la filosofia potrebbe essere definito dall’estetica all’ontologia, all’essere. La vocazione personale di Francesco e in seguito del gruppo dei frati viene, di solito, datata dai biografi da questo momento rilevante. In parte è proprio così, di fronte a quel crocifisso egli ricevette una chiamata precisa. Possiamo e dobbiamo chiederci, se, nel periodo precedente a questo momento vi sia stata come una fase preparatoria e quali caratteristiche abbiano influito sulla vita del santo. Le biografie di Francesco scorrono velocemente attraverso questo periodo. La loro chiave interpretativa è rivolta a porre l’accento sull’aspetto di fondatore dell’ordine francescano minoritico, piuttosto che soffermarsi sulla sua esperienza precedente. L’aspetto della conversione, però, e i biografi stessi lo notano, inizia prima della locuzione interiore di S. Damiano, inizia come cercherò di approfondire con questo lavoro, già dalla sua permanenza nella casa paterna e nell’esperienza di lavoro e di vita ad Assisi. Il metodo che seguo, nel racconto, è racchiuso nel genere letterario del romanzo storico di cui vi sono molti esempi. Alcuni autori hanno affrontato la vita di san Francesco[3] attraverso un’individuazione delle linee interpretative della sua vita affiancate a personaggi, comprese poi in punti di vista che emergono dalle biografie e dalle leggende. Questo metodo e stile narrativo fa emergere dalle vicende umane aspetti nuovi della vita del santo. Il racconto, nel susseguirsi d’eventi e considerazioni, cercherà di entrare più a fondo nella vita del santo proprio da questa prospettiva: portare alla luce, attraverso il romanzo storico, quegli aspetti espressivi, le sovra-strutture, tanto importanti, di cui abbiamo parlato, che spesso tendono a nascondere più che a manifestare. Le vicende legate, ad esempio, alla solitudine nella creazione ben evidenziano questa prospettiva di fantasia e di storia fuse nel romanzo storico. Il metodo fantastico è anch’esso un genere letterario, molte vicende sono costruite ipoteticamente, come il viaggio a Venezia del santo dopo il fallimento di Spoleto, ma l’importante, credo, sia leggere tra le righe, i sentimenti dei personaggi. Un altro esempio indicativo di questa narrazione fantastica è quello del muro che Francesco vuole distruggere come simbolo dell’oppressione. Il muro rappresenta un simbolo, storico e letterario, che diverrà chiave di lettura teologica per comprendere il passaggio e l’integrazione nella vita di Francesco, delle dinamiche della religione e della fede, dinamiche che sono comprensibili attraverso l’interpretazione teologica.
4 L’influenza della spiritualità
Un autore, scomparso da poco tempo, T. Merton, monaco trappista, ha scritto brevemente sull’esperienza vocazionale[4] di san Francesco. Egli ha notato che la vita apostolica fu una caratteristica importante del santo, secondo anche lo spirito con cui la vedeva san Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae. Per cui nella vita apostolica: «Si dividono con gli altri i frutti della contemplazione». A queste considerazioni, Merton, giunge dopo avere guardato alla vita di Francesco. L’esempio di quest’autore spirituale, non specificamente legato al francescanesimo, ci aiuta ad entrare nella prospettiva di riconoscimento dell’interpretazione, cosiddetta spirituale, della vita del santo, fatta da un gruppo di frati. All’interno di questa corrente di francescanesimo prende sempre di più corpo una parziale concezione della vita del santo e in particolare alla sua esperienza della solitudine. Dagli scritti degli spirituali emerge la solitudine come la necessaria amica, insieme alla povertà, per l’uomo. Francesco nella sua ricerca iniziale di luoghi di solitudine ne dimostra la validità anche per lui. All’inizio della sua esperienza vocazionale egli si limitò a frequentare San Damiano, la Porziuncola, il monte Subasio, gradualmente, i luoghi di vita di questo gruppo divennero molti, anche per il crescere del numero dei frati. Questi furono i luoghi dell’esperienza contemplativa del santo, gli spazi dell’incontro misterioso con se stesso e con Cristo, con i fratelli e con le creature, i luoghi dove egli scrisse la sua regola e dove ricevette le stimmate. L’inizio intenso e la fine drammatica della sua vita umana e vocazionale si svolgono in questi luoghi. Durante la sua vita egli continuò ad andare e venire da questi romitori, da Assisi alla Verna. Questo linguaggio non fu veicolato al tempo poiché attraverso le leggende, velocemente, si fece dire a Francesco che lui si disponeva interamente per la vita apostolica. Ma quanto c’è di verità in quelle brevissime affermazioni ? Quali intenti hanno portato a insistere sull’abbandono dello spirito contemplativo che sta scritto nella vita del santo ? Bene, è Francesco stesso a difendere quest’aspetto fondamentale della sua vita, è lui a volere costruire l’uomo interiore, è lui a trascorrere la maggior parte del suo tempo nei romitori. Per rendersi conto di questi aspetti è utile imparare a leggere, tra le righe, la storia di san Francesco nelle leggende e nei racconti. La solitudine costitutiva di Francesco non è vuota, disperata, ma colma di preghiera e consolazione, di ricerca interiore e ascolto. All’origine della sua vocazione c’è quest’esperienza di silenzio, di solitudine che va inquadrata e riscoperta nella sua giusta dimensione anche dal francescanesimo attuale molto indirizzato, alla dimensione della comunità. Sul tema della fraternità, come altro dalla comunità, alcuni autori stanno lavorando attraverso lo studio, inoltre i convegni specifici invitano, sempre di più, ad approfondire questa prospettiva[5]. Per terminare il discorso sulla contemplazione e dargli il suo giusto peso nella vita del santo si può rilevare che qui non s’intende, ancora una volta, affermare il solo valore della contemplazione, ma, fare in modo che esso possa riemergere come momento espressivo permanente della vita del santo. Paradossalmente, e l’intento del libro è di renderlo evidente e comprensibile, la fraternità francescana prende corpo e significato proprio dalla vita contemplativa del santo, dal suo riconoscere i fratelli come parte di quella creazione che ha tanto amato e in cui riconosce il lebbroso come persona da amare e i primi frati da accogliere e, infine, Cristo come il vero Dio da seguire. Il discorso sul metodo di composizione di questo libro, sul silenzio e la contemplazione è soltanto un aspetto per introdurre la più ampia riflessione sulle sovra-strutture[6] teoriche del pensiero e della storiografia su san Francesco. L’approfondimento sull’esperienza del santo vuole condurre al riconoscimento di quel nucleo di testimonianze e di verità poste al centro o sottostanti alle sovrastrutture dell’interpretazione.
Come per quanto si è detto, a riguardo delle architetture e dell’arte, si riscontra che vi è una sovrastruttura che avvolge e custodisce la Porziuncola e il corpo del santo, così per ciò che riguarda il suo pensiero e la vita si può riconoscere che esistono sovrastrutture di generi letterari, amplificazioni, leggende che vestono e ripresentano fatti e avvenimenti in una veste nuova. Anche in quest’ambito del pensiero e della vita del santo ripresentato attraverso queste sovrastrutture vi sono da individuare un nucleo protetto e custodito, per cesti aspetti nascosto, rappresentato dalla vita stessa di S. Francesco, dalla Regola, dal Testamento e dal Cantico delle Creature. Proprio il Cantico delle creature diventa una chiave di lettura e d’ermeneutica importante. Esso fu composto da Francesco negli ultimi anni della sua vita, non vi è una data precisa della composizione. E’ probabile, che dall’esperienza delle stimmate Francesco abbia ulteriormente riflettuto sulla sua vita e sulle vicende legate all’ordine dei minori. In questo periodo egli dovette rispondere alle sollecitazioni provenienti dall’interno del gruppo dei frati, dall’altro lato vedeva correre il suo carisma avanti a lui. Egli cercò di consolidare l’esperienza normativa attraverso una giusta interpretazione della Regola e, dall’altro lato, cercò di condurre i frati ad una riscoperta del senso permanente del suo carisma. Attraverso il Cantico delle creature Francesco svolge ancora una sorta di testimonianza poetica e teologica sul valore della creaturalità che deve sostenere l’esperienza della fraternità. Il cantico delle creature non è soltanto un testo della poesia e letteratura ma un testo simbolico da affiancare come valore carismatico alla Regola e al Testamento. Nel Testamento, Francesco, cercò di riconfermare i suoi intenti, le tappe della vocazione, le linee di lettura della sua vita, della fede e della regola. Nel Cantico vi è la ricerca di sviluppare un messaggio religioso e umano che ormai stava scomparendo intorno alla polemica della povertà, della normatività e delle cose da fare. Francesco, nel cantico, ritorna volentieri alla sua conversione, ritorna ai momenti del suo rivolgersi a Dio in contemplazione silenziosa. Il testo viene posto dagli studiosi dell’ordine all’interno della poesia religiosa del santo e di conseguenza dagli studiosi di storia e letteratura posto alle origini della lingua italiana. Questa emarginazione poetica del Cantico non ha comportato nella storia la sua definitiva dimenticanza. Anche la sfera politica s’interessa di questo aspetto della vita del santo avendo assunto san Francesco come protettore della vita ecologica oltreché patrono d’Italia. Del resto, le motivazioni del recupero di questo testo, a livello di carisma, sono da ricercare nella volontà del santo. Emerge, dal cantico, la riflessione sul rapporto tra la creazione e il gruppo dei minori, in particolare l'Ordine nelle sue sulle origini e nei suoi fondamenti creaturali. Nella forma poetica del Cantico la fraternità si distende verso ogni realtà della creazione stessa. Proprio in questa prospettiva Francesco era riuscito a superare le difficoltà dell’impatto con i nuovi frati che volevano seguirlo e a diventare anche lui fratello. Nel Cantico, Francesco, si rivolge a Dio per lodarlo e ringraziarlo della creazione e poi si rivolge all’umanità intera rivolgendo e prolungando lo sguardo del creatore, lo sguardo d’amore di Dio stesso, del crocifisso di S. Damiano. Egli vuole sottolineare l’aspetto amorevole di Dio ma anche, con una certa severità, la necessità della conversione attraverso l’abbandono del peccato e il perdono. C’è da chiedersi quale sia il rapporto tra il Cantico con tutto il resto dei documenti storici studiati e interpretati da vari punti di vista. Ancora una volta emerge la necessità dell’interpretazione in modo da riuscire a individuare le congruenze e le incongruenze, le somiglianze e le dissomiglianze, le vicinanze e le distanze. L’amore per le creature, per ogni essere vivente e inanimato, per Francesco è un dovere, in quanto ogni realtà porta significatione, cioè rimanda simbolicamente a Dio. La teologia di Francesco, la sua fede, è ben espressa, quando egli pone l’uomo al centro della creazione. L’uomo per Francesco rappresenta l’essere più importante, l’essere che interpreta la voce del creato e la rivolge a Dio come lode e ringraziamento; grazie a Gesù che ha riconciliato l‘umanità con Dio stesso. La fede in Gesù Cristo diventa il motivo ispiratore di questo cantico, attraverso Cristo l’uomo diventa partecipe della riconciliazione di Dio. Da queste brevi considerazioni si può intuire che la Regola, insieme al Testamento e al Cantico potrebbero essere, a loro volta, sovrastrutture di un centro ancor più profondo, esse proteggono l’intimo dell’esperienza di Francesco, centro verso il quale egli protende in tutta la sua vita. Si può davvero ipotizzare che questo centro sia rappresentato dall’esperienza di Cristo, dall’incontro con Gesù nella fede. Quest’aspetto emerge come nucleo essenziale nell’esperienza di Francesco nella solitudine e nella fraternità, sul monte e nella selva, nella città e sulle strade, nell’evangelizzazione e nella sofferenza. Questo rapporto con Cristo, quasi come un filo conduttore, una trama sottile della vita, appare, sotto diversa forma, nel santo e, i momenti della sua conversione ne sono la manifestazione più evidente. In sintonia con questa lettura interpretativa vediamo come nella sua vita egli pone in evidenza due momenti di conversione. Il primo in cui abbandona la casa paterna per darsi alla vita eremitica e contemplativa. In questo cammino egli riconosce d’essere creatura di Dio. Il secondo momento è rappresentato dall’incontro con il lebbroso e con i primi frati che vogliono seguirlo e che lo costringono ad una nuova impostazione della sua vita: la fraternità. In entrambi i momenti della conversione, che a volte s’intersecano e si ripresentano nel tempo, egli riconosce la presenza di Cristo che lo chiama, che parla con lui. La risposta di Francesco a questa sollecitazione interiore è il riconoscimento d’essere creatura e la consapevolezza del proprio posto nella creazione. Inoltre, Francesco, prende sempre più coscienza nel suo essere figlio di Dio grazie a Gesù, grazie ai lebbrosi che vengono a lui e, in seguito all’incontro con i suoi primi compagni che chiedono di seguirlo. Da queste prospettive nasce in Francesco l’attenzione alla chiesa come realtà, voluta da Dio, che va incontro all’uomo d’ogni tempo. Specificamente come realtà di Cristo che di lui porta significazione. Da qui scaturisce la riverenza e l’obbedienza alla chiesa del suo tempo come madre della vita spirituale e della devozione. In essa Francesco riconosce quel Dio di cui aveva colto l’opera nella creazione e di cui aveva riconosciuto l’immagine viva nel crocifisso e nei lebbrosi. Francesco, così, riconosce la presenza misteriosa di Dio nei vari momenti della sua conversione. L’età matura del santo è caratterizzata dalla fede in Dio come provvidenza per l’uomo, un Padre che si prende cura veramente dei suoi figli. Egli sviluppa la sua fede nel Cristo, il Figlio di Dio riconosciuto e amato nell’Eucarestia, segno vivo della sua umile presenza nascosta nella storia del mondo. Infine egli scopre la fede in Dio, in Gesù simboleggiato bene dal crocifisso di S. Damiano e nello Spirito Santo che opera nel cuore dell’uomo attraverso la sua santa operazione. La fede di Francesco è semplice, sincera, rivolta con chiarezza nell’ambito della chiesa cattolica. Lo sviluppo della sua conversione è proprio racchiuso in questo nucleo essenziale, ben custodito e protetto che lui stesso chiama il segreto del gran re, la cella spirituale, in cui si svolge il rapporto interiore con Dio, nella fede e nel ringraziamento della lode. Francesco riconosce nella chiesa un simbolismo importante per la fede. Come il creato porta significazione di Dio così la chiesa esprime l’immagine di Cristo e da qui scaturisce il suo amore per essa. Francesco riconosce la presenza misteriosa di Cristo nella storia, nella vita, nell’eucaristica come centro vivificante della chiesa e da qui si rivolge con la sua adorazione e contemplazione. Alla chiesa richiama sempre lo sguardo dei frati poiché in essa vede Cristo che annuncia il regno, che guarisce, che va in croce e muore e infine Cristo che risorge dalla morte. In questo riconoscimento ecclesiale della presenza di Cristo, Francesco, trae slancio per vivere il Vangelo come forma propria della sua vita e di coloro che vogliono seguirlo. Vivere il Vangelo, per lui, significava appartenere alla chiesa con tutto se stesso. Da questa prospettiva si comprende il rispetto di Francesco per la Chiesa debole, per i sacerdoti umiliati per il loro peccato, per le infermità morali e spirituali che erano motivi di giudizio e d’eresie. La posizione di Francesco è rivolta a sostenere la Chiesa che conserva e diffonde il Vangelo, egli vuole testimoniarlo. Il suo sguardo è alla santità della chiesa, dono di Cristo stesso presente e operante con il suo corpo e sangue nell’Eucarestia a testimonianza dell’amore umile per l’umanità e anche della responsabilità cui l’uomo è chiamato di fronte a tal evento. Queste considerazioni sull’Eucarestia e la sua importanza nella vita del santo ci rimandano all’ultima chiave di lettura, nell’ambito dell’appendice sulle strutture interpretative: l’aspetto della teologia. Attraverso di essa è possibile individuare il percorso di Francesco nei momenti indicativi della sua vita, nelle tappe che lui attraversa, nell’auto-riflessione costante. Il suo andare incontro alla realtà che lo sollecita e il suo immergersi sempre di più nelle diverse forme dell’azione, della contemplazione, della riflessione e dell’esperienza di Dio, c’indicano un percorso particolare che Francesco compie nella sua vita. Un percorso che, in sintesi, va dalla religione alla fede. Questi due aspetti interagiscono nella sua vita in modo permanente poiché egli transita spesso dall’una all’altra, nel tentativo di trovare un equilibrio in se e facendo prevalere una delle due o integrandole con grande sapienza. Qui s’incomincia ad intravedere la grandezza del santo. Nel momento della sua solitudine nella creazione egli fa esperienza della religiosità naturale e si attaccherà con tutto se stesso a questa dimensione. L’incontro con i fratelli lo porterà a considerare la possibilità di ridimensionare la sua solitudine pur di non perdere questa importante e preziosa dimensione di vita. La sapienza teologica del santo si può riconoscere nel tempo in cui comprende, oltre all’importanza della dimensione di religiosità naturale, la prospettiva della fede che si sviluppa sempre di più nell’incontro con l’altro, con il lebbroso, con i compagni, con Cristo e infine con il Sultano. In questa prospettiva teologica ben si comprendono le sue fatiche, in parte mai risolte, di fronte alla fraternità che aumenta e al suo spazio di solitudine e di religiosità che diminuisce. Ha meno tempo per l’eremo e per la contemplazione e gli sembra di perdere tutto. La sua grande opera di teologia pratica è quella di avere raggiunto gradualmente una sana integrazione tra queste due dimensioni, della religione e della fede. L’esempio del muro, citato prima, va richiamato poiché rappresenta uno dei simboli più chiari di questa duplice tensione nell’animo di Francesco. Egli proietta su questo muro, creato nella narrazione fantastica, il simbolo dell’oppressione, del male che divide e che schiavizza chi lo compie. Vede in esso il legame con una realtà che disgrega e corrompe. Francesco vuole distruggere questo muro perché gli ricorda le carceri, gli insulti, la costrizione cui non voleva mai più soggiacere. Per questo non accetta vecchie regole monastiche per il suo ordine, né forme troppo costrittive a livello abitativo. Egli vuole raggiungere la libertà dei figli di Dio in Cristo, e a questo, tende con tutto se stesso. Ecco il suo riferimento iniziale alla religiosità naturale come àncora di salvezza. L’arrivo dei nuovi frati e la loro presenza, sempre più marcata, diventano, per lui, motivo di sofferenza, ma, soprattutto, stimolo, verso una nuova conversione. Attraverso l’integrazione della religione naturale della creazione con la fraternità inizia per Francesco una nuova storia. Ciò non significherà mai per Francesco la soppressione della religiosità naturale, ma la sua giusta posizione all’interno della crescita dell’uomo nuovo che è in lui e che deve riferirsi a Cristo e alla Chiesa. Egli scopre gradualmente la fede in Dio che è il superamento e l’integrazione della religione. La via della fede per lui non può essere quella tracciata per altri ordini religiosi, da tempo già affermati nella chiesa, poiché lui stesso aveva constatato la non validità di quelle forme per la sua vita. Nell'esperienza della guerra con Perugia egli sperimentò il carcere, nella sua famiglia il padre lo fece catturare e imprigionare. Francesco cercò di evitare di ricostruire nella sua vita luoghi di questo tipo. Individuò, nelle relazioni della fraternità, l’unica, possibile, abitazione dei frati. I rapporti di fraternità divennero per lui la porta, il tetto, il muro vero della costruzione spirituale e materiale dell’ordine. Qui stanno le motivazioni profonde della regola francescana che sarebbero dovute diventare un riferimento costante alla sobrietà. Francesco non volle costrizioni di nessun genere per i frati se non l’obbedienza ad un semplice guardiano, figura per lui molto diversa rispetto al superiore nella concezione monastica o del clero. Non volle monasteri, chiostri, luoghi chiusi, che assomigliano a carceri più che a posti di vita. Per quanto riguarda questo responsabile della fraternità egli pensò ad una vera e propria guardia traendo questa figura dal mondo militare che aveva frequentato. Il guardiano doveva preoccuparsi di difendere i frati soprattutto dall’esterno, dagli eventuali nemici. Questo volle riprodurre nell’ambito della fraternità per quanto riguarda i responsabili. Dovevano essere i custodi, le sentinelle, le vere guardie d’onore di un gruppo di persone che si dedicavano all’evangelizzazione della pace. Perciò, questi responsabili, dovevano preoccuparsi di aiutare i frati a vivere in un mondo, alquanto pericoloso, difendendoli ed aiutandoli come potevano. Il convenire dei frati doveva essere la loro casa e la loro stabile dimora, la creazione nel suo insieme, doveva diventare la casa dei frati. Da qui il non volere abitazioni da mantenere ma luoghi da abitare e da cui potersi liberamente distaccare. Francesco è interessato alla vita delle persone che vogliono seguirlo e proprio per questo cerca di indicare precisamente nella regola che il frate minore non è un monaco residente in un monastero ma ha come abitazione il mondo e di questo mondo, in particolare, gli altri frati che vivono con lui sono porta, finestra, giardino, via. Questa concezione della vita religiosa, certamente influenzata dall’esperienza di vita di Francesco, fu per quell’epoca una novità. Fino ad allora la vita religiosa era concepita all’interno delle mura di una abitazione e non fuori, all’aperto, nella selva o nella città. L’intuizione di Francesco, in risposta alla sua stessa vocazione, è importante per comprendere le successive prese di posizione dei frati di fronte a questa prospettiva che non permetteva una stabilità confortevole, in ogni modo, ma temporanea e povera. I problemi nell’ordine francescano su questa concezione della vita religiosa non tardarono ad arrivare poiché in pochi anni il numero dei frati crebbe in modo esponenziale. Vi furono lotte e divisioni proprio su questo tema delle abitazioni, simbolo per Francesco e per gli altri di uno stile ben preciso di vita comune e religiosa. Ma in questa parte dell’appendice tratto solo dell’aspetto teologico dal punto di vista dell’interpretazione, questa chiave di lettura, di cui parlavo, significata dal dualismo tra religione e fede e nella loro integrazione. L’esperienza di Francesco, perciò, può essere definita l’esperienza di un uomo che gradualmente prende coscienza dell’esistenza di Dio, della religione attraverso la natura e della fede come risposta matura. L’esperienza complessa di questo uomo è anche esperienza di un santo nella chiesa perciò modello per la vita cristiana. Francesco con i suoi fallimenti cavallereschi e con le sue conquiste, su se stesso prima di tutto, nella religione e nella fede, rappresenta un modello per tutta la cristianità, un modello leggibile e interpretabile correttamente, solo con la fatica del rispetto delle dinamiche stesse dell’interpretazione.
All’interno della narrazione ho privilegiato il fatto di porre rilievo ai rapporti e alle relazioni di Francesco. I personaggi nel racconto diventano persone cioè assumono un volto, divengono riconoscibili. Ho cercato perciò di lasciarli parlare e non di strumentalizzarli ad uso e consumo di una narrazione, fatta in un certo modo, o di un fine prestabilito. Ciò significa che ho cercato di scoprire quegli eventi relazionali significativi all’interno del percorso di vita di Francesco e anche qui sarà il lettore a dire se ci sono riuscito. La creazione stessa diventa interlocutrice di Francesco. Il racconto si svolge attraverso i rapporti di Francesco con essa. Il suo riconoscimento e la sua importanza per la vita. La sua drammaticità delle forme semplici. Il padre e la madre costituiscono l’ambito familiare di Francesco, in particolare, nel racconto emerge la figura del padre come presente a far si che il figlio sia felice. Mentre la madre è nell’ombra, ma non nel senso di un’assenza, ma, nella disponibilità di accogliere sempre il proprio figlio e di sostenerlo nel suo progetto di vita. L’attività nascosta della madre assomiglia a quella di Dio stesso che rispettosamente e dolcemente si propone con una proposta di vita. Un altro personaggio-persona è Chiara, in lei non v’è semplicemente la pianticella di Francesco ma, una giovane donna con tanto di volto e di sentimenti, di volontà e desiderio. Ella si rivolge al rapporto con Francesco per conoscere se stessa, lui e Dio. E così per gli altri come il prete di san Damiano, i compagni di Francesco, i lebbrosi, i poveri, il vescovo, il papa, gli amici e i nemici maligni di sempre sono parte integrante della vita di Francesco. Persone che prendono la parola nel racconto e che cercano di essere, di esistere. Questa prospettiva letteraria viene utilizzata nel racconto per superare il limite della leggenda e della rappresentazione storico drammatica della vita del santo in cui sembra che tutto ruoti intorno a lui. Francesco, nelle narrazioni storiche e leggendarie del suo tempo, fu, per certi aspetti, ridotto a personaggio, tanto da diventare una pedina semovente a seconda dell’interesse storico o teologico di riferimento all‘autore. Un esempio evidente è proprio l'opera bonaventuriana in cui Francesco deve apparire, a tutti i costi, come il serafino del sigillo dell'apocalisse. Già nel capitolo sui generi letterari avevo sottolineato i parallelismi e le simbologie come una caratteristica degli scritti su san Francesco. Mi sembra però che l'interpretazione della vita del santo da parte di S. Bonaventura sia significativa oltremodo. Egli cerca di qualificare Francesco all'interno della sua dottrina mistico-teologica in particolare in riferimento all'alter Christus di cui la salita al monte della Verna e la morte ne rappresentano la celebrazione simbolica. Bonaventura trova in Francesco il perfetto esecutore della sua teologia. In quell'epoca estremamente vulnerabile alle esperienze mistico teologiche diventò facile a Bonaventura imporre il suo punto di vista teologico su Francesco. Al riguardo è utile accostare dapprima la S. Scrittura stessa nella sua risonanza esegetica e teologica in quanto le affermazioni di S. Paolo sulla teologia dell'alter Christus riguardano tutti i cristiani. In Galati 2,20 Paolo testimonia così brevemente questa esperienza dell'appartenere a Cristo in riferimento alla disputa sulle opere della legge a cui i suoi contestatori facevano riferimento: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano». Senza dilungarsi troppo su questo argomento certamente da approfondire è bene però sottolineare che l'idea teologica che sta sotto la dottrina dell'alter Christus bonaventuriana va oltre le intenzioni di S. Paolo. Bonaventura prende come riferimento per il suo lavoro teologico dapprima la S. Scrittura in particolare il libro dell'Apocalisse come sviluppo della sua teologia della storia. Dice Bonaventura all'inizio della sua Legenda Maior: «Resta così razionalmente dimostrato che egli è stato inviato fra noi con lo Spirito e la potenza di Elia. E perciò si afferma, a buon diritto, che egli viene simboleggiato nella figura dell'angelo che sale dall'oriente e porta con sé il sigillo del Dio vivo»[7]. Sul tema dell'alter Christus la teologia e la storiografia francescana[8] hanno già superato ampiamente la prospettiva bonaventuriana poiché è dato comune nella teologia della chiesa che l'alter Christus è, nella storia, il cristiano stesso[9]. La teologia della storia di Bonaventura è riferita principalmente all'Apocalisse[10] e da essa viene continuamente illuminata e perciò anche la vita di Francesco d'Assisi diventa anello comunicante di questa linea teologica. Così Francesco da persona diventa personaggio di una storia, a volte, non sua ma costruita per affermare e confermare un'esigenza teologica. Il problema che sorge da queste interpretazioni teologiche e simboliche è evidente in quanto esse cercano di inserire Francesco come personaggio all'interno di una storia teologica che sia di conferma, a sua volta, delle affermazioni e delle teorie del teologo. La teologia è ricca di queste esperienze in tutta la sua storia, basta pensare alla mistica teologica, alla teologia apocalittica in genere. Un esempio moderno di questo operare[11] teologico è l'opera di H.U.Von Balthasar.. Anche questo autore sposa la linea apocalittica per la sua interpretazione della teologia della storia e Dio stesso diventa personaggio della sua opera teologico letteraria[12]. Non è possibile in questo ambito rappresentare anche solo brevemente le sintesi e le analisi di pensiero scritte da V. Balthasar in più di 900 libri e articoli durante la sua vita, per certi aspetti, di grande valore letterario e teologico. Qui interessa solo sottolineare che questo teologo del XX secolo, ha posto la storia di Dio, di Cristo e della Trinità come personaggi insieme all'uomo nella storia del mondo. Egli ha voluto inserire Cristo nella sua specifica rappresentazione storico teologica del mondo, tanto da trasformare il Cristo e la Trinità, e in fondo tutti coloro che entrano in scena nella sua Teodrammatica, in personaggi, attori del suo dramma. Anche qui avviene la trasformazione della persona in personaggio, Dio stesso diventa personaggio e V. Balthasar è veramente un esperto regista e drammaturgo. Il problema che sorge, perciò, da queste interpretazioni teologico simboliche, drammatico-teatrali, è evidente in quanto esse cercano di inserire una persona storica all'interno di un progetto teologico, nel caso dei due autori citati si tratta di Francesco e Dio medesimo. Queste persone storiche vengono elaborate e vagliate, ricostruite e ristabilite in nuovi rapporti, quelli del genere letterario appunto che vuole la loro trasformazione. Le persone, così, vengono trasformate in personaggi all'interno della storia teologica al fine di essere considerati motivo di conferma, come già dicevo, a priori e a posteriori di una determinata prospettiva teologica. In particolare emerge, negli autori citati, la chiave di lettura apocalittica che essi vogliono imprimere nella loro opera e di conseguenza nella vita circostante attraverso di essa. Le persone vengono ridotte a personaggi di una storia per Bonaventura, e di un dramma per quanto riguarda V. Balthasar. Entrambe sviluppano la storia attraverso due grandi personaggi, Francesco e Cristo. Entrambe questi due teologi letterati producono una sovrastruttura poderosa, ma, a volte, difficile, da interpretare, poiché fondono storia e simbologia, letteratura e teologia. In ogni caso il loro sforzo di rappresentazione è notevole e ricco di prospettive sia per la storia che per la teologia. Il limite del loro rappresentare sta nel loro punto di partenza assoluto sia per la storia che per la teologia. Per Bonaventura si tratta di inserire Francesco nella sua simbologia mistica per cui il santo è inquadrato come parte dell'Apocalisse, e inserito nel movimento del mondo verso Dio come alter Christus. Perciò Bonaventura definisce Francesco come alter Christus per proporre una simbologia mistica della fine dei tempi di cui Francesco è araldo, annunciatore. L'uomo Francesco scompare di fronte al santo che Bonaventura considera maggiormente importante a sostegno della sua linea. Da qui la motivazione della simbologia sovra-strutturale messa da Bonaventura come interpretazione della vita Francesco. Le tracce di questa sovrapposizione teologica, culturale, teorica e simbolica sono evidenti a partire dalla ricostruzione della vita stessa del santo di Assisi. Gli aspetti di questa vita che Bonaventura vuole fare prevalere vanno a coronamento di tutta la sua impostazione storico simbolica in cui Francesco emerge come personaggio, più che persona con una storia effettiva. Sorge così, in modo abbastanza chiaro il problema dell'ermeneutica, dell'interpretazione per comprendere effettivamente la storia di ogni persona inserita, a volte per forza, in situazioni ed eventi.
Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3) Il tema della povertà è da inserire nel discorso complessivo sulla vita di Francesco e non come un'appendice irrisolta. La povertà vissuta da Francesco è richiamo alla provvidenza di Dio. La vita del cristiano è veramente tale, secondo Francesco, quando è vissuta nell'abbandono provvidente di Dio e della sua volontà. E' una delle caratteristiche della creaturalità e della filialità divina. Come Cristo si fece povero di se stesso e della sua regalità divina così il cristiano vive di questa spogliazione e abbandono provvidente tanto quanto Cristo. Nell'esperienza francescana il discorso sulla povertà si sviluppa a partire dal problema del denaro. In quel periodo storico il denaro divenne strumento d'ingiustizia in quanto i nobili maiores decisero di coniare nuove monete senza un vero controvalore di conio. Ad esempio nacque in quegli anni la lettera di credito, l'assegno, il denaro cartaceo. I nobili vedendo passare sotto le loro finestre una grande quantità di beni ad opera delle corporazioni commerciali decisero di diventare ricchi, anche loro, senza fatica e senza spesa, coniando di loro iniziativa monete da far circolare nei loro territori. Uno dei problemi fu quello legato al controvalore di queste nuove monete. I poveri-nobili non potevano acquistare oro per coniare monete e in forza del loro potere coniarono monete senza effettivo valore, come bronzetti o altri metalli. Una conseguenza evidente fu quella che vide sorgere l'opposizione della classe mercantile a tutta questa nuova falsa ricchezza in dotazione ai poveri-nobili del tempo. L'effetto di questa scelta commerciale da parte dei nobili ebbe una conseguenza a catena in tutta Italia e all'estero in quanto i vari nobili feudatari dovevano coniare a loro volta monete e lettere di credito valide nei loro territori e scambiabili dietro veri e propri accordi di cambio. Il denaro divenne così la vera misura delle merci di scambio sostituendo così gradualmente un'economia in cui il denaro aveva un controvalore nel conio in oro e in argento. Francesco perciò intravvide l'ingiustizia del facile denaro con cui venivano acquistate merci prodotte con tanta fatica. Egli volle porre rimedio a questa aggressione del denaro ingiusto e falso attraverso il rifiuto di maneggiarlo per custodire in effetti il valore delle cose e la loro giusta equivalenza rispetto alla fatica del lavoro. Il discorso sulla povertà francescana nasce perciò in questo contesto storico ed economico da tenere ben presente. Francesco invita i suoi a non trafficare col denaro strumento ingiusto di ricchezza e di guadagno, egli invita i suoi primi compagni a lavorare con le proprie mani e a porre il ricavato del lavoro in fraternità. Il discorso sulla povertà perciò trae spunto e significato da questa prospettiva socio economica in cui Francesco si trova. C'è da supporre che l'accusa di Francesco al facile denaro con cui i nobili acquistavano ricchezze a scapito dei lavoratori fosse l'obbiettivo della critica francescana. Nel nostro tempo questa attenzione al denaro deve essere riposta sulle modalità di guadagno e sulle modalità di spesa in quanto esso rappresenta uno strumento economico necessario.
8 L’individuazione di un percorso
Siamo perciò restituiti, dalla storia di Francesco stesso, ad un percorso della sua vita, connotato da tanti risvolti e avvenimenti che la Chiesa cerca di indicare come possibile. La vita di Francesco diventa una via e un orizzonte di vita per i cristiani di ogni tempo ma, anche, una traccia significativa nella storia della Chiesa e perciò dell’umanità. Il percorso di santità di Francesco viene riconosciuto dalla Chiesa nel 1228 con la canonizzazione. Vennero raccolte testimonianze sulla vita e sulle virtù del santo, sui miracoli e sulle sue parole. Questa canonizzazione praticamente immediata non ha permesso di raccogliere molto materiale sulla vita del santo. Le storie vennero amplificate, non in malafede, ma per dare maggior risonanza alla vita del santo secondo i generi letterari dell’epoca, di cui si è già accennato. Viene rilevata la grande quantità di persone che hanno invocato il santo e sono guarite. La santità, successivamente proclamata, del santo diventa chiave di lettura e di interpretazione per la gran mole di materiale storiografico redatto, per la risonanza ecclesiale nel tempo e, in seguito, nella storia cristiana. Nella storia della Chiesa il carisma di santità di Francesco è stato continuamente studiato e riproposto. Vi sono periodi in cui per motivi interni all’ordine si è privilegiato l’aspetto della povertà, in altri momenti viene sottolineata l’obbedienza, altri risvolti storici in cui si fa leva sulla castità. Perciò i voti, specificamente, sono da sempre stati una via di sviluppo dell’interpretazione della vita del santo. Gradualmente si è sviluppata una risonanza ecclesiale notevole della vita del santo, per cui fu necessario guardare anche a quelle virtù, un po’ laiche, degne di essere valorizzate con il tema della santità. Tra queste virtù è emersa in modo notevole e sempre più marcato, quella della fraternità. Ciò è avvenuto da circa un quarto di secolo. Una serie di fatti contingenti come le due guerre mondiali del novecento hanno fatto si che l’ordine francescano sviluppasse una teologia della comunione piuttosto che quella della divisione sull’interpretazione delle fonti francescane e delle origini. Una tappa di questa conversione dei frati è l’avere conquistato una sana consapevolezza in tutto l’ordine delle diversità che il carisma aveva assunto nelle varie espressioni dell’ordine francescano. Quelli che osservano la regola come i Conventuali, Minori, Cappuccini hanno siglato simbolicamente una pace dell’ordine, finalmente dopo circa otto secoli. Le altre componenti come le Clarisse e i Terziari Francescani hanno tratto beneficio per le loro esperienze. Questa apertura al confronto e al dialogo tra le diverse componenti del francescanesimo ha prodotto un suo riconoscimento[13] anche all’esterno della vita religiosa nel mondo ecclesiale laico. Oggi è emerso altresì, una visione del francescanesimo come stile ecclesiale religioso e laicale. Dopo tanto tempo è potuto così emergere il tema della santità in riferimento alla fraternità. Papa Paolo VI ricordava ai francescani di riscoprire il carisma della contemplazione e dei valori umani comuni a tutta l’umanità di cui Francesco si è fatto promotore nella sua vicinanza agli ultimi, ai poveri in particolare. Alcune parole del Papa Giovanni Paolo II rivolte ad un incontro dei Frati Cappuccini Italiani, francescani, esprime bene il discorso sul carisma della fraternità. Ecco di seguito il testo: «La novità evangelica del comandamento nuovo, per cui l’essere fratelli deve caratterizzare i vostri atteggiamenti verso Dio, verso voi stessi, verso gli altri e verso tutte le creature. Questa forma di vita costituisce una sfida e una proposta per il mondo attuale». Leggendo per intero il messaggio del papa si nota come alla Chiesa stia a cuore il carisma di Francesco e come esso rappresenti una possibile via, permanente, per tutta la cristianità. Lette insieme, le prospettive ricordate dai due Papi citati, servono a risvegliare il tema della contemplazione e il tema della fraternità. Con sapienza, i due papi della Chiesa, hanno inquadrato molto significativamente i due momenti della conversione di Francesco: la solitudine e la fraternità. Il discorso sulla creazione e sulla nuova possibilità di rapporto derivante dalla riconciliazione del creato e dell’umanità con Dio mediante Cristo, è anche un tema abbastanza sviluppato nella storiografia francescana. Le due componenti del Vangelo vissute da san Francesco, la contemplazione e la fraternità sono da sempre integrate nella regola francescana. Spesso, come la storia ha dimostrato, sono prevalse interpretazioni riduttive e distorte che hanno favorito la divisione anziché l’unità e la pace all’interno dell’ordine. Entrambe queste esperienze, la contemplazione e la fraternità, insieme ai voti di povertà, castità e obbedienza, costituirono il proprium, lo specifico del francescanesimo e caratterizzarono questa forma di vita religiosa e laicale nella Chiesa. Nella storia dell'Ordine alcune correnti hanno tentato di far emergere l'una rispetto all'altra interpretazione, si è discusso sui valori, ci sono state lotte e divisioni sui valori, a discapito di una armonia tanto cercata da Francesco. Ma gli avvenimenti stessi, le divisioni e le nuove riforme e fraternità, formatesi nel tempo, hanno fatto intuire che la pienezza del carisma francescano non è contenibile in un’unica esperienza ma che la verità degli inizi va continuamente approfondita. L’esclusione di questo percorso ha portato nella storia a tante lotte e divisioni e ad una contro-testimonianza. Le riforme che si sono succedute negli ordini hanno connotato, anche, la storia della Chiesa, ma, hanno, a volte, lasciato il vuoto e la frattura, nella comprensione del carisma. Spesso lo hanno letteralmente nascosto come ad esempio nei tempi bui dell‘inquisizione in cui i francescani erano promotori e giudici. Da ultimo, si nota un permanente tentativo di ricostruire la vita di preghiera, povertà, castità e obbedienza, e lo sforzo di alcuni singoli frati e laici, ha evidenziato al nostro tempo un carisma vivo, ma in certi aspetti povero di un effettivo riconoscimento dalla fraternità concreta. Un problema attuale nella vita degli ordini francescani è il recupero del carisma attraverso una dimensione più ecclesiale, da cui scaturisce una vita di fraternità incentrata sull’evangelizzazione e sull’attività pastorale. Alcuni frati, provenienti da movimenti ecclesiali, cercano di portare il loro contributo di vita e di fede, ma si è evidenziato un notevole divario tra vita della fraternità ed esperienze in movimenti ecclesiali. Il problema della doppia appartenenza di un frate alla fraternità e al movimento ecclesiale non è facile da risolvere, si sono create tensioni, sono emerse prospettive diverse rispetto al percorso francescano. Queste tensioni rappresentano, comunque, una scossa importante, che deve fare riflettere e approfondire la vita e il carisma dell’ordine a favore di una integrazione vera di queste nuove prospettive. Il riconoscimento effettivo della vocazione si sviluppa attraverso l’umile disposizione a riconoscere in esso un patrimonio da accostare con cura e studio, con dedizione e amore, altrimenti è facile assumere percorsi e stili comodi alla propria esperienza di provenienza. Anche i giovani che si rivolgono all’ordine, chiedendo di entrare a farne parte, a volte, non hanno una storia ecclesiale personale e di comunità, non hanno un cammino di fede appropriato, queste situazioni si sviluppano poi in crisi della vita religiosa e sacerdotale. Questi giovani, poveri in spirito, sono, però, colpiti ed entusiasmati dal carisma di Francesco e desiderano seguirlo come possono. Da qui il discernimento e la formazione possono progettare e discutere su tappe formative che devono precedere e seguire all’entrata nell’ordine. Nonostante queste difficoltà alcuni giovani, maschi e femmine, continuano a chiedere di entrare a far parte dell’ordine francescano, molti laici vivono la consacrazione nel Terzo Ordine, poche giovani, ma certamente motivate, si dedicano alla vita contemplativa francescana nell’ordine di S. Chiara. Pieno di possibilità per la Chiesa, il carisma francescano, è tuttora aperto ai giovani che sono chiamati alla vita dei consigli evangelici nella solitudine contemplativa e nella fraternità, come lo fu per Francesco. Questa apertura alle vocazioni e al discernimento dell’ordine sarà veramente effettiva e matura in quanto si riuscirà, all’interno delle diverse esperienze francescane, a vivere in contemplazione e in fraternità in armonia e secondo i consigli evangelici. I voti religiosi di obbedienza, povertà e castità, sono l’evidenza, oggettivamente riconoscibile e seguibile con chiarezza, per l’uomo e la donna del nostro tempo post-moderno, attraverso un possibile percorso di fede e di vita. I voti, presi in se, non danno il carisma di san Francesco, essi vanno inseriti nella loro giusta prospettiva della vita evangelica, della contemplazione e della fraternità. Essi possono aiutare a concretizzare il percorso di conversione della persona che si dispone come Francesco. Un percorso definibile nell’esperienza del riconoscimento dell’esistenza di Dio, nella religiosità naturale conseguente e nello sviluppo maturo della fede. Ma questa prospettiva è tutt’oggi in via di essere sempre riscoperta come del resto in tutte le epoche del francescanesimo. Un percorso, ancora una volta effettivamente percorribile, è quello proposto dalla teologia e dall’interpretazione che ho utilizzato per dare delle chiavi di lettura dei testi francescani e di questo racconto di fantasia, ma congruente. La teologia e l’ermeneutica ci hanno aiutato a comprendere come l’esperienza di Francesco sia da interpretare come percorso di fede di un cristiano che scopre l’importanza di Dio nella sua vita. Egli si decide a seguirlo e, infine, insieme ad un gruppo, fonda un ordine con una regola di vita. Si tratta di un percorso in cui viene sempre di più in evidenza, nel tempo, un’esperienza di vita, quella di Francesco e dei primi frati, da prendere a modello per la propria fede. Il carisma francescano, allora, si delinea secondo le espressioni più significative che ho cercato di sviluppare nella religiosità riscoperta e nella fede. Questo può essere di aiuto a chi ha intrapreso la strada, spesso ardua, delle riforme sulla povertà o sulle strutture murarie a partire dai testi francescani presi alla lettera in modo fondamentalista. Nella società contemporanea emerge, per quanto riguarda una valenza significativa per l'ordine francescano, il tema della pace. Le campagne per la pace, gli incontri di preghiera nello spirito di Assisi, iniziati nel 1986 caratterizzano le attività in questo senso e i propositi di molti membri del francescanesimo all'interno di ordini religiosi e movimenti laicali. Spesso alcune frange fondamentaliste cristiane accusano chi lavora per la pace di produrre una cultura cristiana del pacifismo fine a se stesso favorendo così, questa è in sintesi l'accusa, una riduzione del messaggio evangelico a buonismo. La critica menzionata non tiene conto degli aspetti veri del francescanesimo e del cristianesimo che vengono messi in atto. La stessa Chiesa nei suoi vertici più importanti si fa promotrice di pace a tutti i livelli, perciò è bene continuare l'attività di promozione [14] della pace a tutti i livelli. Una conseguenza dell'atteggiamento pacifista che il cristianesimo è chiamato a promuovere è la valorizzazione della responsabilità verso la vita a tutti i livelli. Vita umana, vita animale, vita vegetale, vita, in genere, richiamano insieme alla problematica ecologica in modo decisivo. Francesco d'Assisi oltre ad essere stato proclamato Patrono d'Italia è anche Patrono dell'ecologia. L'ecologia è, prima che una scienza, un atteggiamento dell'uomo di tutti i tempi. Nell'ambito biblico, l'ecologia, è una dimensione rivelata all'uomo. Dio ha consegnato l'universo all'uomo e alla donna perché lo custodiscano, perché ne utilizzino per la loro vita le risorse nel pieno rispetto di ogni realtà. Il dato biblico serve a sostenere l'atteggiamento di responsabilità nei confronti della terra, del cielo, del mare, del fuoco-energia e della creazione. Francesco d'Assisi è a buon ragione e merito il patrono di questa scienza e di questo atteggiamento di responsabilità universale poiché con la sua vita ha dimostrato l'importanza del creato. Il creato è scoperto da Francesco come fratello, sorella, madre; la natura per Lui rappresenta la casa in cui lodare e ringraziare Dio. Già nell'esperienza del santo di Assisi s’intravedono quelle tematiche care agli ecologisti e ambientalisti di tutti i tempi. Egli ha compreso misticamente e razionalmente come la terra è luogo dell'incontro con il creatore, con il fratello, egli ha compreso come la terra non sia soltanto utile a soddisfare i bisogni attraverso il suo sfruttamento ma soprattutto, la terra è il luogo della presenza di Dio che si manifesta. Compito dell'uomo perciò è rendere grazie per la terra e per i beni che contiene e non solo consumare la terra per i propri bisogni. L'atteggiamento contemplativo di Francesco nei confronti della creazione è, insieme al Vangelo, l'essenza della sua spiritualità. Queste riflessioni sull’interpretazione rimandano al racconto vero e proprio, mi auguro che possano servire a tutti coloro che cercano di vivere la spiritualità francescana.
[1] Per citarne alcuni: G. MICCOLI, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana (Einaudi, Torino 1991); dello stesso autore, Francesco d’Assisi e l’Ordine dei minori (Ed. Biblioteca Francescana, 1999); GRADO G. MERLO, Nel nome di San Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Editrici Francescane, Padova 2003. In particolare questo autore, nell’ultima parte della sua opera, offre una bibliografia estesa e critica delle opere più significative sul francescanesimo. [2] S. Bonaventura, Legenda maior, Cap II, FF 1038 in AA.VV. (a cura di ), Fonti Francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi. Cronache e testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di S. Chiara d’Assisi,Messaggero, Padova 1983; cf. anche Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi , Cap. VI in AA.VV. (a cura di ), Fonti Francescane, op. cit. [3] cf. R. Bacchelli, Non ti chiamerò più padre, Mondadori, Milano 1970; G. Jorgensen, San Francesco d’Assisi, Mondadori, Milano 1981; R. Cavallone, La conversione di Francesco d’Assisi, Ed. Porziuncola, Assisi, 1995. [4] T. Merton, Nessun uomo è un’isola, Garzanti, Milano 1957. [5] Nardo G.- Salonia G. (a cura di), La fraternitas di Francesco d’Assisi. Storia, novità, attualità., Ed. Italia Francescana, Teramo, 2003. [6]. Giovanni Miccoli, Francesco d’Assisi e l’Ordine dei minori, op.cit., pp.11-12. [7] S. Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior. Prologo in AA.VV.(a cura di), Fonti Francescane, op. cit., p. 834. FF 1022. [8] Per quanto riguarda la storiografia, in particolare, gli studi più aggiornati, propongono un superamento della prospettiva bonaventuriana. Si può dire, però che prima di superare, di netto, San Bonaventura bisogna incontrare, letterariamente e storicamente parlando, il testo della legenda maior. Questo testo rappresenta, in ogni caso, un veicolo storico e letterario di molte verità su san Francesco che vanno colte a partire dall'interpretazione. Il superamento della prospettiva univoca bonaventuriana è possibile solo in quanto se ne coglie il valore letterario, il quadro storico e le simbologie che vi trovano spazio. Un testo utile di riferimento: Manselli Raoul, San Francesco d'Assisi. Editio Maior, San Paolo, Milano, 2002. [9] Tettamanzi Dionigi, Nelle diverse vocazioni un'unica chiamata alla santità in Il Segno della Diocesi di Milano Anno 54 N° 6 Giugno 2004 , Ed. ITL, Milano. [10] Per un approfondimento del genere letterario e della simbologia del libro dell'Apocalisse l'esegesi è unanime a situare il libro nel suo tempo. Viene evidenziato come vi siano dei riferimenti storici a situazioni già concluse come la vita di imperatori romani, condottieri come Alessandro Magno ed altri eroi. Questi vengono avvicinati alla figura dell'Anticristo insieme ai vari imperi dominanti in quell'epoca. Ciò non toglie che il libro dischiuda anche un messaggio sugli ultimi tempi della storia e questo messaggio è da interpretare ulteriormente alla luce di tutta la letteratura del Nuovo e dell'Antico Testamento. Alcuni studi al riguardo: Chiarazzo Rosario, Introduzione al Nuovo Testamento, Ediz. Piemme, Casale Monferrato, 1991; Padoan Florindo, I segni della fine. L'apocalisse è un libro di storia in simboli, Editrice S.A.T., Verona, 1996; Corsini Eugenio, Apocalisse prima e dopo, SEI, Torino, 1980. [11] cf. Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 2002. 1° Ediz. 1967 Il termine operare in questo caso, si riferisce al discorso sull'ermeneutica di cui si è accennato. In particolare vi è il riferimento all'opera complessiva di vari autori in questo campo. L'autore citato è uno studioso approfondito dell'ermeneutica dell'epoca più recente. Per il nostro discorso l'autore da delle linee di lettura per spiegare il fatto che nell'opera letteraria esistono diverse strutture, alcune dominanti, altre secondarie, che vanno interpretate. Queste strutture, riconosciute attraverso l'interpretazione, sono esterne all'opera, ma, comprendono l'opera stessa nel suo svilupparsi in un progetto più ampio. Derrida propone l'attenzione alla cultura in cui si è immersi poiché essa condiziona, nel modo indicato l'opera letteraria. L'autore si riferisce a diverse opere di vari autori come Nietzsche, Freud, Heidegger. Possiamo aggiungere Bonaventura e Von Balthasar per le opere di riferimento. In sintesi, la caratteristica dell'operare nel senso inteso da Derrida è la preposizione di un archè ad un corpus letterario. [12] Von Balthasar Hans Urs, Teodrammatica.,5 Volumi, Jaca Book, Milano, 1986. In particolare per quanto riguarda la teologia della storia e il genere apocalittico il volume 4° dell'opera intitolato »L'azione» è indicativo per riconoscere questa prospettiva di letteratura e di teologia. [13] Papa Giovanni Paolo II, Messaggio ai cappuccini italiani in occasione del Capitolo delle Stuoie in AAVV.(a cura di), Fraternità minoritica ed ecclesiale in un mondo che cambia. Atti del Capitolo delle Stuoie dei cappuccini italiani Assisi 27-31 Ottobre 2003 (Ed. Italia Francescana, Roma 2004) pp. 359-360. [14] Riccardi Andrea, La pace preventiva. Speranze e ragioni in un mondo di conflitti, Ed. Paoline, Milano 2004. Questo autore, attuale presidente della Comunità di S. Egidio, incarna bene lo spirito del movimento evangelico e pacifista. «Essere pacificatori», afferma con chiarezza, « vuol dire prima di tutto avere un senso generoso della propria vita, in questo mondo dove tutto si calcola, dove tutto si vende e si compra. In ogni situazione , anche in tempi di violenza, i cristiani sono chiamati a custodire nei loro cuori, nelle loro vite, nelle loro comunità, la pace». Queste semplici parole di Andrea Riccardi ci fanno riflettere sulla responsabilità per la pace che ogni cristiano è chiamato a vivere
Testi per l’accostamento storico dell’epoca francescana: Grado Merlo Giovanni, Nel nome di San Francesco, Storia dei Frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Editrici Francescane, Padova, 2003. Manselli Raoul, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, San Paolo, Milano 2002. Miccoli Giovanni, Francesco d’Assisi e l’Ordine dei minori, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano, 1999. Miccoli Giovanni, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino, Einaudi, 1991.
Testi per iniziare una valutazione sui temi dell'interpretazione: Derrida Jaques, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino,2002, 1° Ediz. 1967. Merleau Ponty Maurice, Senso e non senso. Percezione e significato della realtà. Il Saggiatore, Milano 2004, 1 Ediz. 1962. Testi di approfondimento delle fonti francescane: Di Nardo G. - Salonia G. (a cura di), La fraternitas di Francesco d’Assisi. Storia, novità, attualità., Ed. Italia Francescana, Teramo, 2003. AA. VV.(a cura di), Costituzioni dei Frati minori Cappuccini e ordinazioni dei Capitoli Generali. Regola e Testamento di S. Francesco, Ed. Conferenza Italiana dei Ministri Provinciali Cappuccini, Roma, 2002. Esser Kaietan, Origini e valori autentici dell’ordine dei frati minori, Edizione Francescane Cammino, Milano, 1966. AA. VV.(a cura di), Vivere il Vangelo. Francesco d‘Assisi ieri e oggi, Ed. Francescane, Assisi, 1983. AA. VV.(a cura di), Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di Santa Chiara d’Assisi, Edizioni Messaggero, Padova, 1977. AA. VV.(a cura di), Introduzione alla regola francescana. Contributi e studi sulla Regola di S. Francesco a cura dei Frati Minori tedeschi, Edizioni Francescane Cammino, Milano, 1969. Alcuni esempi di romanzo storico sulla vita di S. Francesco: Cavallone Romano, La conversione di Francesco d’Assisi, Ed. Porziuncola, Assisi, 1995. Jorgensen Giovanni, San Francesco d’Assisi, Mondadori, Milano, 1981. Bacchelli Riccardo, Non ti chiamerò più padre, Mondadori, Milano, 1970.
Per un avvicinamento al discorso teologico attraverso la letteratura: Von Balthasar Hans Urs, Teodrammatica, 5 Volumi, Jaca Book, Milano, 1980-1986. Salman Elmar, La teologia è un romanzo. Un approccio dialettico a questioni cruciali, Paoline, Milano, 2000.
Per una ripresa del discorso contemplativo ai nostri giorni: Driot Marcel, Quando la vita diventa preghiera, Paoline, Milano, 1998. Evdokimov Pavel, L'uomo icona di Cristo. Saggi di spiritualità, Ancora, Milano, 2003. 1 Ediz. 1982. Tit. Originale: Le buisson ardent. Gentili Antonio, Oasi. Meditazioni per riprendere il cammino, Paoline, Milano, 2000.
Testi di riferimento per il genere apocalittico nella teologia della storia: Padoan Florindo, I segni della fine. L'apocalisse è un libro di storia in simboli, Editrice S.A.T., Verona, 1996. Corsini Eugenio, Apocalisse prima e dopo, SEI, Torino, 1980.
Approfondimenti sul tema della pace e dell'ecologia: Riccardi Andrea, La pace preventiva. Speranze e ragioni in un mondo di conflitti, Ed. Paoline, Milano 2004. AA.VV. (a cura di), L'urgenza ecologica. Percorso di lettura attraverso le proposte dell'etica ambientalista, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004.
Testi di letteratura per l'approfondimento dei generi letterari: Lesky Albin, Storia della letteratura Greca, Vol. 2°, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1991. Pazzaglia Mario, Antologia della letteratura italiana con lineamenti di storia letteraria, 1° Vol., Zanichelli Editore, Bologna, 1972.
Questo libro è dato gratuitamente per la lettura, Tutti possono copiare questo testo e leggerlo sul proprio computer. E' consentito l'utilizzo nella predicazione e nello studio con citazione del testo e dell'autore. E' vietato un uso commerciale dello stesso. Sono vietate altresì diffusioni non autorizzate. Nel caso di una eventuale pubblicazione cartacea affermerò sempre il diritto di lasciare libera e scaricabile da internet la copia digitale.
Autore: P. Ettore Zini – Frati Minori Cappuccini – Italia/Lombardia
Anno: 2004
Questa copia digitale è stata redatta: 04/01/07
Ho utilizzato il programma Open Office versione 2.0 (gratuito)
Ringrazio il sito qumran2.net per l'osptitalità del testo e per il lavoro pastorale nella comunicazione
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